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venerdì 17 novembre 2017

Linguistica. Alfabeto greco e alfabeto fenicio. Perché l’alfabeto greco finisce così? Riflessioni di Fabio Copani

Linguistica. Alfabeto greco e alfabeto fenicio. Perché l’alfabeto greco finisce così?
Riflessioni di Fabio Copani


L’alfabeto greco è lì, con i suoi ventiquattro segni riprodotti sui libri di testo e sui siti internet. Alfa, beta, gamma, delta, epsilon… Quando s’inizia a studiare una lingua generalmente non ci si pone molte domande su ciò che si sta apprendendo. L’insegnante dice che l’alfabeto è quello, dunque s’impara così e basta.

In questo articolo:
L’alfabeto greco non nasce come lo conosciamo oggi, ma ha una lunga storia
Derivazione dell’alfabeto greco da quello fenicio
Le ultime cinque lettere dell’alfabeto sono un’aggiunta dei Greci
Distinzione tra u vocalica e semivocalica
L’introduzione dei segni complementari: importante spia storica
L’ultima esigenza: distinguere vari tipi di o
In realtà ogni lettera dell’alfabeto greco, prima di essere incasellata nelle griglie che conosciamo, ha alle spalle una storia lunga anche secoli. Lo stesso segno è stato usato per suoni diversi, con un
tracciato mutevole, oppure anche non impiegato per niente in molte città. Fare la storia dei singoli grafemi significa immedesimarsi nelle difficoltà dei Greci di duemilacinquecento anni fa: legislatori, poeti, funzionari che si sforzarono di forgiare uno strumento efficace, col quale mettere per iscritto il loro pensiero.

Alfabeto greco e alfabeto fenicio
L’alfabeto greco fu un’innovazione straordinaria mutuata dai Fenici. Furono, infatti, questi ultimi che riuscirono per primi a trascrivere la loro lingua grazie all’impiego di pochi simboli. I Fenici furono i signori del commercio e del Mediterraneo per svariati secoli; i Greci, ammirando la loro abilità e organizzazione, capirono ben presto che quell’invenzione delle lettere era qualcosa di dirompente e la assimilarono. Tale acquisizione è già accertata a partire dall’VIII secolo a.C.
L’alfabeto fenicio era costituito da poco più di venti  lettere, con le quali era trascritta una lingua semitica piuttosto diversa da quella greca, indoeuropea. Ciò significa, anzitutto, che i Fenici avevano dei suoni che i Greci non usavano. Per comprendere, basti pensare alle diverse aspirate presenti in arabo ed assenti in italiano, ovvero al suono di u francese, anch'esso assente in italiano. I Greci dovevano dunque decidere cosa fare dei segni che a loro non servivano.
All’opposto, naturalmente, c’erano dei suoni importanti  nella lingua greca e sconosciuti ai Fenici. Per questi ultimi si poteva ricorrere al reimpiego di segni non usati, oppure creare nuovi segni ex novo.

Le ultime cinque lettere dell’alfabeto greco
Il primo adattamento dell’alfabeto fenicio aveva prodotto un alfabeto greco che si arrestava alla lettera tau (τ). Successivamente furono aggiunte alla coda di quell'alfabeto due vocali e tre consonanti, per risolvere dei problemi diffusi per i parlanti greci. Tali lettere erano, nell'ordine, hýpsilon (υΥ), phi (φΦ), chi (χΧ), psi (ψΨ) e oméga (ωΩ).

Anzitutto un segno per la u
La prima esigenza fu quella di trovare una sistemazione per il timbro vocalico “u”. L’alfabeto fenicio conosceva un segno per indicare la u semivocalica, cioè quel suono che sta a metà strada tra una vocale e una consonante (come per es. nelle parole italiane uomo, cuoco). Tale suono occupava la sesta posizione dell’alfabeto e si chiamava waw. I primi Greci che adottarono le lettere fenicie mantennero quel suono e quella lettera, nella medesima posizione, ma la modificarono graficamente; ne nacque la lettera che successivamente i grammatici avrebbero chiamato digamma, a causa della forma di un doppio gamma maiuscolo (ϝ).
Come facciamo a sapere che le cose andarono così? Abbiamo la fortuna di possedere due alfabetari arcaici: si tratta di due iscrizioni, risalenti al VII secolo a.C. e ritrovate a Marsiliana d’Albegna (Grosseto) e nel santuario di Era sull’isola di Samo. In entrambi questi casi al sesto posto troviamo il digamma. Vedere immagine al’inizio dell’articolo.
A quel punto serviva però un’altra lettera per indicare la u vocalica (ricorrente per es. nell’italiano muro, puro). La soluzione fu di inserire un nuovo segno dopo il tau. Fu così che nacque la hýpsilon. Questa lettaera  in origine era pronunciata, appunto, come la u di muro. Il passaggio alla u “francese”, come la pronunciamo noi oggi, fu un’innovazione del dialetto ionico-attico.
Secondo l’illustre studiosa Margherita Guarducci, sia digamma che hýpsilon non sarebbero altro che variazioni grafiche dell’originario segno fenicio waw, sdoppiato per rispondere alle esigenze dei Greci.
Accadde poi, gradualmente, che la u semivocalica (digamma) fosse sempre meno sentita dai Greci, che finirono per confonderla con la u vocalica. Fu così che il digamma scomparve progressivamente dagli alfabeti delle città greche.

Kirchhoff e la storia dei segni complementari
Sistemata la u, o meglio le u, i Greci affrontarono il problema di quattro suoni per loro molto importanti, ma non presenti nell’alfabeto fenicio. Si trattava di due consonanti aspirate (ph, ch) e di due nessi consonantici molto comuni (ks, ps). La sistemazione di queste lettere creò grande confusione e fu risolta nei modi più disparati nelle varie regioni del mondo greco. Il risultato fu la proliferazione di alfabeti diversi. Per fare un esempio, ad Atene ancora nel V secolo a.C. la csi e la psi erano trascritte con i nessi ΧΣ (chi + sigma) e ΦΣ  (phi + sigma), non con i segni csi (ξΞ) e psi (ψΨ) che siamo abituati a vedere nei testi moderni.
A gettare luce su questo caos, è stata un’opera fondamentale pubblicata nel 1887 dallo studioso Adolph Kirchhoff. Quest’ultimo, esaminando le iscrizioni e gli alfabeti arcaici delle varie città greche, riuscì a rintracciare delle costanti nel trattamento dei quattro segni in questione. Si potevano identificare precise aree geografiche che corrispondevano alla diffusione di una soluzione piuttosto che un’altra.
Kirchhoff creò così una cartina nella quale usò quattro colori per distinguere le diverse strategie di scrittura impiegate:
Verde: alfabeti ancora privi di segni complementari.
Azzurro scuro: utilizzo di ΦΧΨΞ col valore rispettivo di ph, ch, ps, ks;
Azzurro chiaro: utilizzo di ΦΧ col valore di ph, ch. Mancano segni specifici per ps e ks, per i quali si usano per lo più i nessi ΦΣ e ΧΣ.
Rosso: utilizzo di ΦΧΨ col valore di ph, ks, kh. Manca un segno per ps, generalmente espresso con ΦΣ.
Logicamente i nuovi segni furono aggiunti nei vari alfabeti dopo quelli già sistemati, ovvero dopo la hýpsilon. Per quanto riguarda la csi (ξΞ), in realtà non venne aggiunta una nuova lettera ma si cambiò destinazione a una lettera fenicia inutilizzata. Tale situazione di confusione perdurò fino alla fine del V secolo a.C. quando la capitale della cultura greca, Atene, decise con un editto ufficiale (403 a.C.) di adottare quello che noi chiamiamo alfabeto “azzurro scuro”, il quale sembrava più funzionale degli altri. Da allora quell'alfabeto si impose ovunque e divenne il modello della scrittura greca come noi la conosciamo.

Omega, l’ultima arrivata
L’ultima aggiunta nell'alfabeto greco fu la lettera oméga (ω,Ω). Alla base c’era l’esigenza di distinguere la o chiusa (quella per es. dell’italiano colto, nel senso di istruito) dalla o aperta (come nell'italiano colto, nel senso di raccolto); oltre a ciò il greco voleva trascrivere anche la differenza di durata di quelle vocali, poiché, a differenza dell’italiano, sentiva la differenza tra vocali lunghe e brevi.
Anche in questo caso i risultati furono disparati nelle varie comunità greche. Molte città non notarono affatto la differenza e usarono la ómicron (οΟ) per la o breve chiusa, la o lunga chiusa e la o lunga aperta (la o breve aperta non esiste).
Tuttavia il problema era sentito da molti parlanti, cosicché si svilupparono, anche qui, varie strategie. Spesso venne usata la ómicron (οΟ) per la o chiusa (sia lunga che breve), mentre venne creato un nuovo segno,  oméga per la o lunga aperta. Il nuovo grafema venne ottenuto aprendo il cerchio della ómicron e inserendo due appendici.  (Ο → Ω). Non mancarono però casi (Paro, Taso) in cui Ο fu usata per la o lunga aperta (quella che noi conosciamo come oméga) e Ω per la o chiusa, sia lunga che breve. Anche qui, bisognerà attendere la definizione dell’alfabeto ateniese perché la grafia si stabilizzi in quella giunta fino a noi.



1 commento:

  1. Questo è un articolo molto interessante, dal mio punto di vista, perché sposta all'indietro la diatriba fra vocali aperte e vocali chiuse (fondamentalmente la "e" e la "o") che riscontriamo a tutt'oggi quando noi sardi parliamo sardo e tentiamo invece di parlare in italiano (di qui la nostra riconoscibilissima cadenza). Posto che le "e" chiuse somigliano foneticamente alle "i" (potremmo definirle "i" aperte", semplificando) e che le "o" chiuse risolvono naturalmente in "u", accade un fenomeno strano a noi di madrelingua sarda: cioè, che non troviamo continuità con la lingua italiana che ci è stata insegnata a scuola, nel senso che quando parliamo italiano travisiamo il più delle volte queste differenze fonetiche, come se stessimo parlando un'altra lingua o provenissimo da mondi diversi. Questo "distacco linguistico" mi ha sempre affascinato, salvo scoprire che se ci attenessimo a pronunciare in italiano le corrispondenti parole con la dizione sarda ne sbaglieremmo molto poche, in termini fonetici. Gli esempi potrebbero essere decine di migliaia. In questa sede mi limito a qualcuno. Premetto che la mia tastiera fa differenza fra "è" e "é", ma non la fa tra "o" chiusa e "ò" (aperta). It. concorso (le due "o" sono chiuse), srd. cuncursu, pronuncia sarda del termine italiano còncòrso (le due "o" aperte). Mondo (due "o" chiuse) = srd. mundu: pronuncia dei sardi parlanti italiano "mòndò". Mi fermo qui per necessità di sintesi. Fate questo gioco, vedrete che gli esempi sono decine di migliaia. Resta però il problema del distacco o della non continuità linguistica. Cioè, noi sentiamo che le due lingue sono distanti, come se esistesse una cesura (l'insularità?), quando poi in fondo esistono una continuità e una base comune (mediterranea?) anche in termini di corretta dizione. E' un'anomalia che non riesco a spiegarmi, ma che deve avere una sua precisa ragione d'essere. I miei limitati strumenti culturali non mi consentono di avanzare ipotesi credibili e documentate circa questo bipolarismo linguistico-fonetico. Avrei piacere di sentire il parere degli esperti, semmai volessero illuminarci.
    Pier Paolo Sciola

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