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venerdì 24 febbraio 2017

Sardi, Dea Madre, Mont’e Prama, tophet. Riflessioni di Mariano Piras.

Sardi, Dea Madre, Mont’e Prama, tophet. Riflessioni di Mariano Piras.


Questo articolo integra il precedente pubblicato su Honebu il 16 Gennaio 2017 intitolato “Culto e misteri dei bronzetti sardi”, del quale è consigliata la lettura prima di questo nuovo per comprenderlo appieno. (nota di Mariano Piras)

La civiltà che abitò anticamente la Sardegna, che convenzionalmente chiamiamo Civiltà Nuragica perché costruì gli oltre 8000 nuraghi sparsi in tutta l’Isola, aveva un profondo senso di comunione con la Natura. Dai riti celebrativi stagionali, al culto dei morti sino ad arrivare alle iniziazioni, tutto era legato ai cicli naturali. La vita è un’iniziazione: si nasce piccoli e si gioca ad imitare ciò che fanno i grandi. I cuccioli dei cani corrono dietro alle lucertole per prepararsi ad affrontare ciò che da grandi li porterà alla ricerca del cibo: la caccia. Come quella animale, l’esistenza umana è costellata da prove e preparazioni per il superamento.
Come ho già scritto nell’articolo “Culto e misteri dei bronzetti sardi”, i nuragici praticavano il culto della Dea Madre e di una serie di divinità secondarie rappresentate nel cielo dalle costellazioni. Queste, insieme alle
leggende a loro attribuite, costituivano il Pantheon nuragico, come avveniva presso altri popoli. Le Sacerdotesse ottenevano il loro incarico in seguito alle iniziazioni ai misteri e al superamento delle prove. Con ciò i nuragici dimostravano una profonda conoscenza dei meccanismi della Natura e dei movimenti psicologici e spirituali dell’essere umano.
Le divinità del Pantheon nuragico e i personaggi rappresentati nei bronzetti, che imitano con la loro postura le costellazioni, sono generalmente armati, quindi viene da chiedersi se questi nostri progenitori furono un popolo profondamente religioso o, piuttosto, dei guerrieri. La risposta è ambedue.
Anche i Greci adoravano divinità armate e a loro innalzarono maestosi templi. Le stesse divinità furono poi prese dai Romani. Erano raffigurate nelle costellazioni, e non dobbiamo sorprenderci che fossero guerrieri perché guerrieri furono i Greci, lo furono i Romani e lo furono, ancor prima, i Nuragici.
Anticamente, quando i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo, adoravano la Dea Madre, gli uomini erano dediti alla caccia e non alla guerra. Le società erano a carattere matriarcale, Dio era femmina, era la Natura che dava la vita.
In seguito, con la scoperta di agricoltura e allevamento, gli uomini sentirono la necessità di possedere terre e di commerciare i prodotti, e iniziarono i conflitti armati. Ogni popolo organizzò un esercito per assicurarsi la sopravvivenza. Non c’era più bisogno di adorare una divinità femminile che dispensava le risorse per la sopravvivenza. Si poteva ottenere combattendo. Dio diventò maschio e guidò i guerrieri in battaglia.
In un primo tempo la Sardegna, forse a causa del suo isolamento, si mantenne lontana da questi avvenimenti. Tuttavia i nuragici, almeno quelli che risiedevano vicino alle coste, navigavano per tutto il Mediterraneo commerciando rame e altri prodotti, e importandone altri. Per prevenire un’eventuale invasione della loro terra si organizzarono costruendo i nuraghi a corridoio, ossia costruzioni ipogeiche nelle quali nascondere vecchi, donne e bambini in caso di invasione. I vecchi erano utili alle comunità per la loro capacità di mantenere vivi i ricordi del passato, quindi non credo alla pratica dell’uccisione dei padri citata da alcuni autori. D’accordo con Carta Raspi, ritengo che l’evoluzione di questi edifici fu il nuraghe monotorre e, in seguito, i grandi complessi polilobati. La funzione era sempre quella di fortezze passive nella quali nascondere chi non poteva combattere, protetti dai grandi muri e da una serie di strutture atte a rendere inefficace l’eventuale utilizzo degli arieti. I nuraghi a tancato, cioè a due torri, venivano costruiti con le due entrate alle torri una di fronte all’altra. In questo modo si risolveva il problema del punto debole dei nuraghi: la porta d’ingresso. Il tutto veniva protetto da un muro di recinzione, l’antemurale. Anche la conformazione del terreno su cui venivano costruiti i nuraghi aveva lo scopo di renderli inaccessibili al nemico, essendo costruiti sulla sommità di colline. Dove questo non avveniva, cioè nelle piane, i nuraghi venivano protetti da grandi mura di contenimento e sicuramente anche da trincee di legno dove venivano lasciati stretti passaggi. Sicuramente insieme alle persone inermi rimaneva qualche arciere che, utilizzando la scala ricavata internamente al muro, si recava sulla sommità del nuraghe, e tirava le sue frecce e rovesciava eventuali scale di legno posizionate dal nemico.
Fino all’epoca dell’invasione romana, i nuraghi non furono utilizzati per scopi difensivi e il loro utilizzo fu quello di mostrare ai commercianti che sbarcavano sulle coste della Sardegna, e che sicuramente riferivano ai loro sovrani, un’isola perfettamente fortificata e inespugnabile. Il resto lo faceva la visione dei guerrieri nuragici, armati sino ai denti e dotati di una forza e di un’agilità selvatiche.
Sulla sommità dei nuraghi non c’erano ballatoi, questo pensiero errato deriva dalla nostra visione dei castelli medioevali e dal fatto che negli scavi a Monte Prama sono stati trovati degli oggetti a forma di torre con ballatoio. Se i nuraghi avessero avuto i ballatoi e in seguito fossero crollati, si sarebbero trovate tutta una serie di pietre diverse da quelle che costituivano il muro della torre, sia intorno al nuraghe sia sulla cima.
Non credo neanche a un ballatoio di legno realizzato con tronchi sui quali erano inchiodate tavole di pavimentazione perché non se ne vedono gli incastri.
In seguito vedremo che cosa erano quelle rappresentazioni di torri ritrovate a Monte Prama.
Nei nuraghi si trovavano conserve di tutti i tipi, utili in caso di assedio e i nuragici divennero abili e rinomati produttori di conserve salate. Rifiutando qualsiasi concetto di sottomissione a una sovranità o organizzazione di tipo militare, questi spiriti liberi orientarono alla caccia il loro addestramento alla guerra. Combattevano corpo a corpo con cinghiali e cervi, dopo averli stanati con i cani e diretti in percorsi obbligati. Come vedremo più avanti, questa caccia era scritta nel cielo. Nacque in questo tempo la figura del sacerdote.
Le sacerdotesse, le guide spirituali di quel popolo, conservatrici e dotate di immensi poteri, erano contrarie a ogni forma di progresso materiale. Non vedevano di buon occhio la navigazione, ne l’utilizzo dei segni di scrittura che i nuragici avrebbero voluto adottare come strumenti necessari al commercio.
Rudolf Steiner (1861-1925) nella sua opera “Cronache dell’Akasha”, descrive le varie evoluzioni dell’uomo dividendole in razze. In realtà si tratta di “stadi evolutivi dell’uomo”, niente a che fare con le razze umane come le intende qualcuno.
Riferendosi agli atlantici, ne descrive il loro modo di operare, molto diverso dal nostro, per il quale era fondamentale la memorizzazione delle esperienze. Dai greci e dai romani, per fare un calcolo o realizzare una costruzione abbiamo bisogno di una serie di regole che impariamo studiando. Gli atlantici, ossia uno stadio dell’umanità di migliaia di anni fa, visualizzavano il progetto e lo realizzavano in modo istintivo, prendendolo dalla memoria delle esperienze passate. Il concetto è difficile da spiegare con parole scritte e lo è ancora di più la sua comprensione. Per quanto riguarda Atlantide, non ritengo che la Sardegna fosse questo luogo mitico, un territorio che forse non è mai esistito. Ritengo si tratti della storia di una popolazione che divulgò al mondo le sue conoscenze tecnologiche e spirituali. Per i motivi che spiegherò in avanti, ritengo che i superstiti di questa popolazione furono coloro che abitarono la Sardegna.
Nella seconda metà del II millennio a.C. una flotta di nuragici lasciò la Sardegna per non ritornarvi. Un motivo ben preciso li sospinse a quell’azione. Per questi marinai guerrieri, la divinità maschile era Sardan, secondario alla Dea madre, ma importante perché li guidava nelle imprese. Con loro s’imbarcarono i sacerdoti. Le loro navi erano dotate di sistemi di velatura che consentivano di procedere anche parzialmente contro vento, con imbrogli particolari alla base dell’albero che rendevano a tre lati la vela quadra.
Durante quelle missioni incontrarono la coalizione già formata dei popoli del mare, vi si allearono e in poco tempo, date le loro conoscenze e la loro potenza militare, ne divennero i capi.
La civiltà minoica, già colpita da catastrofi naturali, era già scomparsa dalle cronache, e questi nuovi popoli del mare attaccarono a più riprese l’Egitto. Probabilmente erano in numero minore di quanto riferisce il Faraone Ramses II, ma la loro potenza militare era inarrestabile grazie alla tecnologia delle loro navi e alla loro audacia, alla loro agilità e al loro orgoglio. Ramses II nel descriverli scrisse di “guerrieri SHRDN dal cuore ribelle che nessuno riuscì a contrastare”.
Con questo voleva sicuramente dire che i Shardana non piegavano la testa davanti a niente, non accettavano rese o compromessi, e combattevano sino ad arrivare alla vittoria o alla morte. Contrariamente a quanto ci riferisce il faraone, la guerra la vinsero. La grande agilità dei Shardana era dovuta al fatto che nella loro terra combattevano contro gli animali, in paesaggi ancora oggi scoscesi come da nessun’altra parte. In Sicilia, per esempio, nella maggior parte del territorio nel raggio di un chilometro vi è una sola collina, estesa.
Quanto alle loro navi, dovevano essere quelle che Omero descrisse parlando dei Feaci: sono dotate di vela moderna e viaggiano con il pensiero, non hanno bisogno di timoniere. Parlava della vela triangolare, quella che non ha bisogno di manovratori alle vele (confusi col timoniere dalla traduzione) per le andature strette al vento. Con la vela triangolare si può risalire il vento con andature di bolina e poi virare col vento al bordo opposto, passando con l’abbrivio della nave sulla direzione in cui spira il vento, dando l’impressione a chi conosceva solo la vela quadra, che quelle navi non fossero spinte dal vento ma dal pensiero. La storia dei Sardi non ha nessun bisogno di essere colorata con storie di vele fantastiche che fanno virare la nave senza timone, che non sono mai esistite, ne di improbabili bussole che sfidano le leggi della praticità, del magnetismo, della gravità e non ultimo di quelle del vento. Ancor meno di complessi calcoli astronomici che in quei tempi nessuno faceva.
In seguito alle imprese in Egitto i Shardana si stanziarono sulle sponde delle terre di Canaan, venendo a contatto con i Fenici, antiche genti che secondo gli studi vivevano fra la Siria e l’Egitto e, a mio parere, si miscelarono con gruppi di Shardana. In quel tempo i Fenici stavano evolvendo il loro alfabeto proto cananeo. Giuseppe Sermonti, Biologo, nel suo libro “L’alfabeto scende dalle stelle” (Mimesi 2009), scopre che la scrittura deriva dai disegni delle costellazioni fin dai dipinti del paleolitico, e aggiunge che anche l’alfabeto fenicio ha la stessa origine.
Quando gli Shardana compaiono nelle terre di Canaan, l’alfabeto protocananeo si trasforma in alfabeto fenicio. Ritengo che i sacerdoti Shardana fossero i maestri delle costellazioni. Differentemente da ciò che avveniva in Sardegna, in quelle terre non vi erano ostacoli da parte delle sacerdotesse e poterono dar vita a ciò che avrebbero voluto dar vita in Sardegna: la scrittura.
Molte lettere dell’alfabeto protocananeo sono il pittogramma esplicito di costellazioni. La prima lettera è una testa di toro. Chi modificò questo alfabeto lo fece per occultare il fatto che i pittogrammi erano costellazioni, per cui la prima lettera divenne una “A” rovesciata, (la costellazione del Toro senza le corna e attraversata da una sbarra). E così fu per tutte le altre lettere.
Quindi la prima lettera dell’alfabeto fenicio, è una “A” rovesciata verso sinistra di 90°, la costellazione del Toro dove in quel tempo avveniva l’equinozio di primavera, la rinascita della Natura. L’ultima lettera è una X, la costellazione della Bilancia, dove in quel tempo avveniva l’equinozio di autunno, la Natura andava in letargo. Unendo la prima lettera dell’alfabeto fenicio “A” con l’ultima dell’alfabeto protocananeo “O” si forma il simbolo di Tanit, il principio e la fine delle cose. Infatti, i greci come ultima lettera del loro alfabeto, successivo a quello fenicio, hanno la omega che è anche il simbolo della costellazione della Bilancia.
Con questo propongo che quella chiamiamo scrittura fenicia sia chiamata scrittura dei Shardana, un alfabeto che rimase in uso esclusivo ai sacerdoti. I Shardana si dettero al commercio e la loro cultura, insieme alla religione, si mischiò a quella dei fenici. La Dea Madre divenne Tanit, mentre Sardan orientalizzato in Sandan rimase tale ma i sacerdoti lo scrivevano Baal. In quelle terre oltre al commercio i Shardana impararono anche la pesca del tonno. In seguito si spostarono anche in Anatolia. Nelle loro leggende si parlava di una terra, un’isola, dalla quale tutti loro provenivano e decisero di ritornarvi, forse perché nel Mediterraneo orientale le cose si stavano mettendo male.  Tra il IX e l’VIII secolo a.C. sbarcarono in Sardegna e fondarono le città stato che tutti conosciamo. Le popolazioni nuragiche videro nei nuovi arrivati i personaggi descritti nelle loro leggende, partiti alcuni secoli prima. Parlavano la stessa lingua, pur se leggermente modificata dal tempo.
Sicuramente ci saranno stati dei contrasti, ma alla fine le città stato furono accettate dai nuragici.
La cultura portata dai Shardana dall’oriente, compresa la scrittura, ha fatto pensare che le città stato fossero state costruite dai fenici. I sacerdoti utilizzavano l’alfabeto fenicio una scrittura da loro elaborata e che poi si chiamò scrittura fenicia. Sicuramente, durante i loro riti, i sacerdoti anche in Sardegna usavano il fenicio parlato, non compreso dal popolo, un po’ come i nostri sacerdoti usano il latino nelle cerimonie liturgiche. Tutto ciò che si trova scritto in Sardegna riguarda Baal, perché così lo scrivevano, ma ciò che si è tramandato oralmente, compresi i toponimi, riguarda Sardan o Sandan. Il popolo non sapeva che in quelle incisioni vi era scritto Baal.

Giganti di Mont’e Prama
Come già le sacerdotesse, anche i sacerdoti Sardi si sottoponevano a riti di iniziazione. La loro cultura in oriente subì un drastico cambiamento. Innanzitutto erano cittadini e costruttori di città. Anche se i loro rituali celebravano ancora i cicli naturali, il legame alla natura e ai suoi cicli si era affievolito. Nell’isola si esaltavano la forza e l’eroismo. Chi moriva in battaglia, o mostrava sul suo corpo le ferite di guerra, era considerato eroe. Per questi, l’approccio ai misteri non avveniva più con le prove rituali e la rivelazione del grano ma con un atto di estremo coraggio e forza che trovava il suo campo di battaglia in una battuta di caccia sacra. Combattevano corpo a corpo con i grandi animali: tori, cervi, cinghiali e mufloni. Questa pratica era anche un addestramento alla guerra e la sua descrizione era rappresentata in cielo da alcune costellazioni. Nell’affrontare questa battuta i candidati partecipavano con poche protezioni, non avevano neanche gli schinieri alle gambe. Anche presso i Celti si adottava questa pratica venatoria per raggiungere il sacerdozio.

1) Costellazione del Cane Maggiore (foto1-1.1-1.2). Non diversa da come la vediamo oggi rappresentava i cani impegnati nella battuta.


2) Costellazione del Cane Minore . Nella costellazione del cane minore non si vede e non si vedeva nessun cane ma un cinghiale con tanto di zanne (foto 2- 2.1-2.2). La stella principale di questa costellazione è Procione = (che viene prima del cane) e in una battuta di caccia davanti all’abbaiare dei cani vi è il cinghiale.



3) Costellazione di Auriga. Neanche una persona dotata di grande fantasia riesce a vedere Auriga in questa costellazione. La sua stella principale si chiama Capra, ma non perché Auriga porta una capra sulle spalle ma perché tutta la costellazione è una capra, esattamente come il bronzetto (foto 3- 3.1 3.2)



4) Toro e Cervo già li conosciamo.

In cielo non mancavano neanche i cacciatori impegnati nella battuta.

5) Costellazione di Orione (foto 4). Armato di spada e scudo, sappiamo che i greci, curiosamente, lo chiamavano grande cacciatore o gigante cacciatore. Inoltre i greci lo vedevano con gonnellino corto, spada e scudo in mano e alla cintura il fodero della spada, ma la costellazione completa mostra il bronzetto arciere (foto 4- 4.1- 4.2 -4.3) con cintura con borchie e lunga gonna con borchie aperta dietro, come si vede dalla costellazione dove la gamba destra è fuori. Le borchie erano le stelle. Come sapevano anche i greci, altra rappresentazione di questa costellazione era un personaggio con scudo e spada che aveva il compito di deviare gli animali per imboccare i percorsi obbligati.



6) Costellazione del Perseo . Anche in questa costellazione è difficile vedere il Perseo dei Greci. Si vede, invece, il bronzetto chiamato pugilatore con scudo morbido sulla testa (foto 5- 5.1- 5.2). In realtà questo era il vero cacciatore che si lanciava sull’animale ferito dall’arciere e reso più aggressivo. Con lo scudo morbido, il cui interno doveva essere in feltro pressato in modo da imbrogliare le zanne del cinghiale, si lanciava sull’animale tenendolo per il collo e fracassandogli la testa con il guantone armato. Oggi nessun uomo riuscirebbe a vincere in un simile duello.




Tutti questi personaggi e animali sono raffigurati nei bronzetti, e ora vediamo come erano disposti in cielo.
Nelle (foto 6 e 6.1) è rappresentata nelle stelle la battuta di caccia, quella che divenne per i sacerdoti Sardi il rituale di iniziazione ai misteri nel quale potevano mostrare il loro coraggio e la loro forza. Chi moriva in quel frangente era considerato eroe.


L’abbigliamento sacerdotale in battuta rivelava ancora una certa appartenenza al culto della Dea, con il gonnellino che termina sul retro a punta e le trecce, e queste ultime erano già in uso dalle sacerdotesse che interpretarono la costellazione della Sacerdotessa Vergine. Quelle cascate di stelle ai due lati del volto della sacerdotessa furono interpretate come trecce perché i capelli intrecciati disegnano le spighe di grano, la pianta per eccellenza che simboleggia il susseguirsi di vita, morte e rinascita.
Penso che nella penisola del Sinis a quelli che morivano in battuta fu costruita una statua. Naturalmente, gli arcieri e gli spadaccini erano avvantaggiati nel duello. La maggior parte dei morti erano quelli che saltavano sull’animale, affrontandolo corpo a corpo con lo scudo morbido e il guantone. Nei loro corpi vi erano le ferite causate dalla lotta con l’animale, che pare fossero pitturate di rosso. Nelle statue si notano nelle gambe i segni delle zanne dei cinghiali. Anche agli eroi morti veniva riconosciuto il raggiungimento del sacerdozio.
Le statue che li rappresentano sono più grandi di un uomo perché l’iniziato è considerato superiore e viene rappresentato come un gigante.  Come per tutti gli iniziati ai misteri il raggiungimento della rivelazione non comportava una metamorfosi del corpo fisico ma dell’anima, rappresentata nelle statue dalla differenza che vi è tra il corpo e il viso, lo specchio dell’anima. Gli iniziati diventano chiaroveggenti e la rappresentazione sta negli occhi a doppio cerchio perché il chiaroveggente vede con gli occhi del corpo fisico e con quelli dell’anima. L’iniziato ha un respiro sottile (due taglietti al posto delle narici) e non rivela i misteri (bocca quasi inesistente).
Le statue degli eroi morti si trovavano in prossimità delle tombe. Intorno fu creato un paesaggio monumentale di forte impatto psicologico che rappresentava l’aldilà dei Sardi di quasi tremila anni fa.
In quel luogo sicuramente vi era un santuario dove si praticavano riti di ricorrenza e l’incubazione.
Quelli conosciuti come modelli di nuraghi, sono in realtà le stelle viste sul posto, nell’aldilà, rappresentate come fari accesi alla sommità.
Tertulliano, secoli dopo, diceva che i Sardi praticavano l’incubazione presso il tempio di una divinità maschile. Aristotele affermava che veniva praticata presso gli eroi. Entrambi parlavano della stessa cosa. Con gli scavi probabilmente si troveranno anche gli animali. Per ora non sono stati trovati luoghi simili in Sardegna ma credo che ne esistano altri.
Questo tipo di iniziazione, basato sulla forza, il coraggio e l’eroismo non trovò il consenso delle sacerdotesse. Esse ribadirono la regola eterna dell’esoterismo: più ci si ingrandisce materialmente e fisicamente e più ci si rimpicciolisce spiritualmente.
I sacerdoti costruirono una statua nella penisola del Sinis diversa dalle altre. Vi è rappresentato un iniziato con il telo avvolto al braccio sinistro, come nel rito iniziatico delle sacerdotesse, dove nascondevano le spighe di grano, mentre la mano destra è stretta sul petto nell’atto di impugnare i chicchi di grano. Questa statua fu costruita per attenuare i rancori delle sacerdotesse, ma chi la costruì non riuscì nel suo intento. Le sacerdotesse non potevano accettare un simile stravolgimento dei rituali e alcune di esse distrussero le statue. L’unica che salvarono fu proprio quella che rappresentava il loro antico rituale. Probabilmente furono perseguitate, e la tomba nuragica in Etruria, a Cavalupo, dove erano sepolte due donne una di circa 35 anni e l’altra di circa 10, contenente il bronzetto della sacerdotessa vergine, potrebbe proprio essere la sepoltura di una sacerdotessa e della sua pupilla, fuggite alla persecuzione e rifugiatesi dai parenti etruschi. Il fatto che furono sepolte insieme, e quindi morte nello stesso tempo, significa che la loro fuga non servì a salvarle.
Vorrei sottolineare che nelle costellazioni che oggi portano i nomi delle divinità greche, non si intravedono le suddette divinità ma quelle rappresentate nei bronzetti. E’ risaputo che greci e i romani assorbirono le conoscenze dai popoli con i quali vennero in contatto, e le fecero passare per loro.

Tophet

Altro rituale importato dai sacerdoti Sardi al loro ritorno in Sardegna fu quello che si svolgeva nel Tophet, un luogo di sepoltura periferico alla città, solitamente su un’altura, nel quale veniva eseguito un rituale funerario che inizialmente riguardava i bambini morti prima del compimento di un anno di età. Il cerimoniale prevedeva la richiesta alla Dea Tanit, la Dea Madre, il cui aspetto sinistro era manifestato dalla Luna, di rinunciare al sangue della creatura morta, e di accontentarsi di quello di un piccolo animale che nel rituale veniva scambiato con quello del bambino morto. Il bambino morto si sarebbe reincarnato nel grembo della stessa madre che lo aveva generato. Le famiglie del defunto, per un simile rito, offrivano tributi notevoli ai sacerdoti, ma questi non si accontentavano mai, facendo notare che il rito era pericoloso per loro stessi perché la Dea poteva prenderlo come un inganno e farli morire. In seguito nei Tophet si svolse il rito anche per bambini morti più grandi. Bambino e animale venivano bruciati, e le ceneri conservate in un’urna a forma di pentola con coperchio, posizionata insieme alle altre secondo un disegno ben preciso. Le disposizioni delle urne seguivano le conformazioni degli anfratti del terreno, con serie di urne in riga, che poi si raggruppavano, imitando così i giochi dei bambini che si rincorrono e si radunano. Questa rappresentazione era intesa a suscitare nel cuore della Dea Tanit un senso di compassione per fare in modo che si astenesse dal prelevare vittime innocenti. Per questo motivo il Tophet era a cielo aperto, sulla sommità di una collina e le urne non venivano sotterrate: la Luna doveva vederle e commuoversi. 

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