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giovedì 8 dicembre 2016

Archeologia. I Misteri Eleusini, riti religiosi di iniziazione che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nell'antica città greca di Eleusi. Su essi Cicerone affermò: sono la conoscenza del principio della vita e la speranza di una felice sopravvivenza dopo la morte

Archeologia. I Misteri Eleusini, riti religiosi di iniziazione che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nell'antica città greca di Eleusi. Su essi Cicerone affermò: sono la conoscenza del principio della vita e la speranza di una felice sopravvivenza dopo la morte
di Attilio Quattrocchi

I più famosi misteri greci furono quelli che si celebravano a Eleusi, una città di origine micenea le cui remote tradizioni religiose vennero nel tempo progressivamente integrate con quelle della vicina città di Atene. Eleusi, distante appena una ventina di chilometri dalla più potente città dell’Attica, fu celebre in tutta l’antichità per il santuario di Demetra e Kore, costruito sull’estremità sud-orientale dell’acropoli sin dal 1500 circa avanti Cristo, periodo a cui si deve già riferire la costruzione del telesterion, la sala destinata alle iniziazioni misteriche.  Parzialmente distrutto durante le guerre persiane, il tempio fu ricostruito da Cimone (480-450 a.C.), ampliato da Pericle e dai Romani, fu saccheggiato e chiuso dai Cristiani con l’editto di Teodosio (381 d.C.) e distrutto definitivamente da Alarico nel 396 d.C. È stato riportato alla luce con scavi archeologici intrapresi dal 1817. Tale era la fama dei misteri di Eleusi che Pausania affermò:

 “I Greci più antichi consideravano i misteri di Eleusi tanto superiori in onore a tutti gli atti che riguardano la religione, quanto gli dèi sono superiori agli eroi” (Pausania, 10, 31, 11; Colli, v. I, p.115)
 Lo stesso Cicerone, nel mondo latino, celebrò i misteri e riferì ad essi, oltre all’incivilimento dei costumi umani, la conoscenza del principio della vita e la speranza di una felice sopravvivenza dopo la morte. Infatti così dice:
“…e d’altra parte nulla di meglio di quei misteri, che ci hanno affinati e addolciti da una vita rozza e feroce a una cultura umana, e le iniziazioni (initia), come vengono chiamate. Così in verità abbiamo conosciuto i princìpi della vita e non solo abbiamo ricevuto con letizia la ragione del vivere, ma anche con una speranza migliore quella del morire”. (Cicerone, Sulle leggi, 2, 14, 36)
Il mito
 A causa del segreto che veniva imposto agli iniziati le notizie che ci sono giunte circa le ‘sacre cerimonie’ sono scarse e per giunta molte di esse sono di provenienza cristiana, quindi non del tutto affidabili a causa della prospettiva critica della nuova religione di origine palestinese nei confronti delle religioni ‘pagane’. Il documento scritto più antico circa i misteri eleusini è costituito da un inno ‘omerico’ a Demetra(Δημήτηρ), la dea delle messi che i latini identificarono con la loro ‘Cerere’ (Ceres, Cereris), che si fa risalire al VII secolo avanti Cristo. Esso fa riferimento al mito fondativo del tempio: esso racconta come alla Dea venisse rapita la figlia Core (Κόρη = figlia, fanciulla), nota anche come Persefone (Περσεφόνη) – che i latini chiameranno Proserpina – ad opera del dio degli Inferi, Ade (Αιδης, Plutone). Vagando disperata alla sua ricerca, Demetra (il cui nome significa: la Terra Madre) giunse appunto ad Eleusi, ove venne ospitalmente accolta dalla famiglia del re. La dea per gratitudine volle nascostamente rendere immortale il figlio del sovrano attraverso una sacra immersione nel fuoco ma, la madre del bimbo, avendo scorto il rito, atterrita ruppe l’incantesimo. Demetra continuò a vagare alla ricerca della figlia e nel pieno della collera per non averla rinvenuta causò una terribile carestia; ciò portò alla fine ad un accordo con Ade in base al quale Persefone avrebbe trascorso tre quarti dell’anno con la madre sulla Terra e l’altro quarto agli Inferi con lo sposo. È evidente la simbologia relativa al ciclo vegetativo e tale correlazione è sottolineata dal particolare che il mito racconta secondo cui fu la Dea stessa ad insegnare a Trittolemo la coltivazione del grano. In effetti, le fonti ci confermano che al culmine della iniziazione eleusina si mostrava all’adepto, in silenzio, I Gradi iniziatici e le prove
I sacerdoti che conducevano le iniziazioni erano diversi da quelli che operavano nel vicino tempio di Demetra Eleusina; essi erano chiamati “mistagoghi”, cioè coloro che guidano i misti ed appartenevano a due famiglie che svolgevano il compito da antica tradizione: gli Eumolpidi ed i Kerici. Colui che presiedeva al rito era lo ‘ierofante’ (letteralmente: colui che mostra, fa apparire le cose sacre) che poteva essere anche una donna: in una iscrizione che ci è pervenuta, infatti, si parla di una ‘madre santa che mostrava la teletè delle dee” con chiaro riferimento a Demetra e Kore (CIA, III, 737). Alla cerimonia partecipava anche un dedukòs, un portatore di fiaccola. Lo studioso Victor Magnien ha distinto, sulla base delle fonti, tre gradi iniziatici: quello dei Piccoli Misteri, quello dei Grandi Misteri e quello della Epopteia. La gerarchia sacerdotale sembra corrispondere alle diverse fasi del processo iniziatico e alle connesse diverse funzioni: i sacerdoti che dovevano accogliere i neofiti dovevano aver ricevuto una iniziazione particolare, definita holoclere (da ολόκληρος = completo) che conferiva il potere di purificare; al secondo grado gerarchico c’erano i sacerdoti che potevano conferire la teletè e che per svolgere tale funzione avevano ricevuto la ‘iniziazione sacerdotale’; infine c’erano i sacerdoti che potevano conferire la epopteia in quanto titolari di una iniziazione ‘ierofantica’. Quindi ai tre gradi iniziatici corrispondevano esattamente i tre gradi d’ufficio sacerdotale. Al di sopra di tutti c’era un supremo sacerdote indicato dalle fonti con nomi diversi. Per ciò che concerne il rito ben pochi sono gli elementi che conosciamo attraverso specifiche testimonianze. Da Clemente Alessandrino sappiamo, ad esempio, che l’iniziato all’atto della cerimonia recitava la formula (synthema):
“Ho digiunato, ho bevuto il ciceone (kikéon), ho preso gli oggetti dal cesto (kiste) , ho lavorato e ho rimesso nel cesto alto (kàlathos) e da lì nell’altro cesto (kiste)”. (Proptrettico, 2, 21, 2)
Il ciceone era una bevanda fatta con farina e menta; quanto al ‘lavorare’, gli studiosi sulla base di un testo di Teofrasto, l’interpretano come il macinare del grano in un mortaio: tutti atti cui si dava evidentemente un significato simbolico.
Da Ippolito è testimoniato che:
“…gli ateniesi, nell’iniziazione di Eleusi, mostrano a coloro che sono ammessi al grado supremo il grande e mirabile e perfettissimo mistero epoptico in silenzio: la spiga di grano” e poi continua enigmaticamente:
“…lo ierofante in persona… che si è reso impotente con la cicuta e si è staccato da ogni generazione carnale, di notte ad Eleusi, in mezzo alla luce delle fiaccole, nel compiere il rituale dei grandi ed ineffabili misteri, grida e urla proclamando: Brimò, la Signora, ha generato il sacro fanciullo Brimos…”. (Ippolito, Confutazione, 5, 8, 39-40)
 Per alcuni studiosi il grido dello ierofante sembra riferirsi alla nascita di Iacchos/Bacco dalla madre Persefone. Il candidato passava attraverso una serie di prove che servivano a vagliarne le capacità e, sembra, soprattutto il coraggio, necessario per sostenere le visioni a volte sconvolgenti che venivano indotte nel processo iniziatico stesso. Proclo, ad esempio, ha così testimoniato:
“…nelle teletai i misti, poiché vedono delle apparizioni indicibili e dei simboli terrifici, divengono più atti a ricevere l’iniziazione ed hanno più vivo il desiderio di riceverla” (Proclo, in Plat. Alcib., ed. Creuzer, p. 61)
 In un’altra opera lo stesso filosofo ha scritto:
“Come nella più santa delle iniziazioni, i misti, si dice, incontrano la prima genesi, vedendo apparire dinanzi a loro dèi dagli aspetti molteplici e dalle molteplici forme, ma, essendo abili e fortificati dalla teletè, ricevono nel loro seno l’illuminazione”; ed ancora:
“Gli dèi presentano molteplici forme, spesso mutando apparenza. Talvolta presentano una fiamma di forma indeterminata, talvolta una fiamma in forma di uomo, talvolta in altra forma. E ciò ci è trasmesso dalla mistagogia di origine divina”. (Proclo, in Polit., p. 379)
 Infine lo stesso autore ribadisce in un altro passo:
“Per gli stessi motivi, nelle più sante delle iniziazioni, dinanzi alla presenza di un dio, simboli di demoni ctoni appaiono e spettacoli che turbano coloro che vengono iniziati… Così gli dèi ordinano di non guardarli prima di prima di essere fortificati dalle forze che vengono dalle iniziazioni”. (Proclo, in Plat. Alcib., ed. Creuzer, p. 39)
L’ Epopteia
 Il grado ‘epoptico’, il terzo e quello culminante della iniziazione, è rimasto, significativamente, meno testimoniato. Il miste vi veniva ammesso ad un anno di distanza dall’iniziazione ai Grandi Misteri. In effetti così definisce gli epopti l’ antica ‘enciclopedia’ Suida:
“Coloro che ricevono i Misteri si chiamano all’inizio ‘misti’ e, un anno dopo, epopti ed efori (cioè ‘sorveglianti’)”. (Cit. dall’ Enc. delle Rel., Vallardi, 1128)
Plutarco, parlando di Demetrio che aspirava a ricevere contemporaneamente le tre iniziazioni, scrive:
“Ora ciò non era permesso e mai prima si era fatto, ma i Piccoli Misteri si celebrano nel mese di Antesterione e i Grandi nel mese di Boedromione. L’epoptica si riceveva, poi, al più presto un anno dopo i Grandi Misteri”. (Plutarco, Demetrius, 26, apud Magnien)
Forse il testo più utile, anzi per molti aspetti ‘fondamentale, per comprendere la ‘natura’ dell’esperienza ‘epoptica’, sempre di Plutarco, è il seguente:
“L’anima al momento della morte, prova la medesima impressione provata da coloro che sono iniziati ai Grandi Misteri. La parola e la cosa si somigliano: si dice ‘teleutàn’ (morire) e teléisthai (essere iniziato). Prima vi sono delle cose a caso, penosi ritorni, inquietanti cammini interminati attraverso le tenebre. Poi, prima del termine, il fragore è al colmo, il brivido, il tremito, il sudore freddo, lo spavento. Ma poi una meravigliosa luce si offre agli occhi, si passa in puri luoghi e in praterie, dove risuonano voci e danze. Parole sacre e divine apparizioni ispirano un religioso rispetto. Allora l’uomo, perfetto ed iniziato, divenuto libero e passeggiando senza costrizione, celebra i Misteri con una corona sul capo, vive con gli uomini puri e santi, vede sulla terra la folla di quelli che non sono iniziati e purificati schiacciarsi e pressarsi nella palude e nelle tenebre e, per timore della morte, attardarsi nei mali, per l’errore di credere nella felicità di laggiù”. (Plutarco, fr. 178, Sandbach, Stobeo, 4, 52, 49; Colli, p.113)
E Apuleio fa dire ad un iniziato sostanzialmente le medesime cose collegando l’esperienza del distacco dell’anima dal corpo con la ‘visione’ mistica ottenuta con il santo rito. Lateletè permette agli iniziati di non avere lo stesso terrore della morte che prova l’uomo comune poiché essi l’esperienza della morte l’hanno provata già da vivi e sanno che essa è solo un passaggio ed il preludio di una possibile felicità ultraterrena nel mondo degli dèi:
“Raggiunsi il confine della morte, dopo aver varcato la soglia di Proserpina fui condotto attraverso tutti gli elementi, e ritornai indietro. A metà della notte vidi un sole lampeggiante di fulgida luce. Mi presentai al cospetto degli dèi inferi e degli dèi superni, e proprio da vicino li venerai” (Apuleio, Metamorfosi, 11, 23; Colli, p. 113)
Il mutamento di coscienza che avveniva nell’iniziato era straordinario; egli viveva dopo quell’evento di nuove certezze. Un retore, parlando dell’esperienza che aveva provato ad Eleusi, affermò:
 “Uscii dalla sala dei Misteri sentendomi totalmente diverso” (letteralmente: “straniero a me stesso”) (Sopatro, Reth. Gr., VIII, p. 114)
 Ma i testi più autorevoli e famosi che ci parlano dell’esperienza epoptica sono quelli di Platone nel Fedro e nel Simposio. In un passo del Fedro il filosofo indica i due diversi destini degli uomini: quello delle persone comuni legate alla sola vita dei sensi e che ‘si nutrono del cibo dell’opinione’, cioè non giungono mai per quel motivo alla vera conoscenza della Realtà, e coloro che, invece, iniziati (attraverso i sacri riti o la filosofia), sono capaci di pervenire alla ‘pianura della verità’ poiché hanno nutrito la parte più elevata della loro anima, quella che ‘ha le ali’, cioè che tende alla dimensione metafisica. Esiste dunque per Platone una parte ‘inferiore’ dell’anima ed è quella legata alla vita del corpo, quella che si può intendere come l’insieme delle forze vitali, appetitive, istintive ed emozionali ma l’uomo ha in sé anche una parte dell’anima ‘superiore’. Questa parte più elevata s’identifica con la consapevolezza e l’alta razionalità e si esprime nella ricerca del Bene, del Bello e del Vero. Così intesa la filosofia, nutrita dalle aspirazioni più elevate, ha la stessa funzione del rito iniziatico: quella di guidare l’anima verso il divino e per questo si può definire ‘filosofia epoptica’. Ecco appunto quello che ci dice il testo:
“Tutte le anime che non sono state iniziate provando un grande tormento si allontanano dalla visione dell’Essere e, essendosi del tutto distaccate dalla Verità si nutrono con il cibo dell’opinione. Ma a causa di ciò esse provano una grande e tormentosa difficoltà a vedere la pianura della verità e scoprire dov'è: il pascolo che si addice alla parte migliore dell’anima si trae appunto dalla prateria di lassù, e di questa si nutre la natura delle penne e delle piume da cui l’anima, resa leggera, viene sollevata” (Platone, Fedro, 244 e – 245 a. Trad. dell’aut.)
 In un altro celebre passo il fondatore dell’Accademia descrive con toni di mistico entusiasmo la condizione di beatitudine oltremondana degli iniziati che sanno elevarsi verso l’Alto grazie alla loro ‘purificazione’ ottenuta col distacco ‘rituale’ dal corpo. È questo corpo/carcere/tomba che ci vincola al mondo materiale, è esso che va trasceso:
“E la Bellezza era fulgida a vedersi nel tempo in cui vedemmo, assieme al coro felice, la beata apparizione e visione, noi nel corteggio di Zeus e altri al seguito di un altro dio, ed eravamo iniziati in quella che è giusto chiamare la più beata delle iniziazioni, quel rito segreto che celebravamo, noi stessi integralmente perfetti e sottratti a tutti i mali che ci attendevano nel tempo successivo, mentre integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le apparizioni – entro uno splendore puro – in cui eravamo iniziati e raggiungevamo il culmine della contemplazione: puri noi stessi, senza essere sigillati nella tomba che ora appunto portiamo in giro e chiamiamo ‘corpo’, avvinti strettamente a lui come l’ostrica al suo guscio” (Platone, Fedro, 250 b-c; Colli, I, p.103)
 Nella tradizione iniziatica si afferma costantemente che l’anima deve ‘ricordare’ la sua origine divina e che per far ciò deve identificarsi con la sua essenza: tali concetti furono alla base, com'è noto, sia della filosofia socratica del ‘conosci te stesso’ che di quella platonica, esplicitamente ‘metafisica’. Così si comprende perché la connessione tra Conoscenza e Ricordo sia così costante e rilevante nel pensiero del fondatore dell’Accademia: non dobbiamo, per così dire, ‘costruirci’ un ‘io divino’, perché il nostro stesso io, nelle sua profonda essenza, ’divino’ lo è giภlo deve solo ‘ricordare’, far ritornare alla luce della sua consapevolezza ‘ordinaria’. Per tutto questo, sempre nel Fedro, Platone collega il tema del ricordo con quello della perfetta iniziazione:
“Un uomo che si serva correttamente di tali ricordi, iniziato ai sempre più perfetti misteri, lui solo diventa veramente perfetto. Allontanandosi poi dai comuni oggetti delle preoccupazioni umane e divenendo tutto volto alle cose divine, viene giudicato dai più come se fosse un folle, ma essi non si accorgono che ha il dio dentro di sé (entousiàzon)” (Platone, Fedro, 249 c-d; trad. dell’aut.)
 Tale linguaggio e tali concetti iniziatici sono presenti anche in un altro capolavoro platonico, il celebre Simposio, laddove si racconta come il grande Socrate (che l’oracolo di Delfi aveva indicato come ‘il più sapiente tra gli uomini’) chieda con l’umiltà di un qualsiasi adepto (una umiltà non certamente… ’ironica’!) di essere iniziato ai Misteri d’Amore proprio ad una Sacerdotessa, Diotìma di Mantinea. E’ significativo che costei, al primo approccio, dichiara di non essere certa che il filosofo abbia le qualità per essere iniziato ai misteri e, ancor più, al grado ‘epoptico’, quello più elevato. Tale passo è proprio per questo particolarmente significativo: Platone, mettendo in bocca a Diotìma quelle affermazioni lascia proprio ad intendere che le mere capacità ‘razionali’, ‘intellettuali’, di cui evidentemente Socrate era straordinariamente dotato, di per sé non sono sufficienti a che si venga accettati al rito iniziatico. Perché questo si possa compiere bisogna ‘vagliare’ le aspirazioni profonde dell’aspirante, saggiarne la qualità morale, verificarne insomma la tensione metafisica, cioè quella che volge l’individuo al Vero, al Bene, al Bello. Se non esistono tali presupposti, l’iniziato non saprà sublimare l’Eros e volgerlo dal piano fisico/corporeo a quello spirituale/metafisico.
Così infatti Diotìma si rivolge a Socrate prima d’iniziarlo:
“A queste dottrine d’Amore (tà erotikà), dunque, forse anche tu, o Socrate, potresti essere iniziato; ma ai Misteri (tà télea) e ancor più a quelli Epoptici(epoptikà), in virtù ed in ragione dei quali esistono quelle dottrine sull’eros, se si procede correttamente, non so se ne saresti capace” (Platone, Simposio, 209 e – 210 a; trad. dell’aut.)
Svelato il Mistero, compiuta l’iniziazione, Socrate comprende che l’Amore per sua natura volge al Trascendente e che quando lo si conosce nella sua ’purezza’, nella sua ‘assolutezza’ non contaminata dalla materia e dalla volgare passionalità, si manifesterà ‘misticamente’ come la insopprimibile aspirazione alla Bellezza in sé.
Questa nella sua pura essenza s’identifica con il Divino che attrae tutti gli esseri, li affascina e li beatifica. Dopo aver illustrato i ‘gradi’ del processo iniziatico d’Amore, Diotìma descrive l’esperienza di chi perviene al suo livello supremo:
“A colui che sia giunto al grado supremo (télos) della iniziazione amorosa, all’improvviso si rivelerà una realtà meravigliosa per sua natura, quella stessa, o Socrate, in vista della quale sono state sopportate tutte le fatiche precedenti: una bellezza eterna, che non nasce e non muore… E il Bello (tò kalòn) neppure si renderà visibile a lui come un volto… né apparirà come un concetto o una conoscenza di tipo razionale… si manifesterà come esso è per sé e con sé, sempre identico a se stesso…” (Platone, Simposio, 210 e – 211 b; trad. aut.)
Una suprema illuminazione ottenuta attraverso un processo di conoscenza intuitiva: è questa lo scopo vero e comune delle iniziazioni e della filosofia ‘epoptica’, cioè di quella parte della filosofia, la più essenziale, che si propone la conoscenza metafisica. Aristotele per questo chiamò la metafisica (tale termine verrà usato solo in seguito dal sistematore delle sue opere, Andronico di Rodi) la ‘filosofia prima’ o, anche, ‘teologia’, giacché il Principio Primo coincide con Dio stesso. Il più grande discepolo di Platone, lo afferma con grande chiarezza descrivendo l’esperienza mistica/misterica con gli stessi modi con cui si è descritta in Oriente quella del samadhi, del satori o del nirvana: questa esperienza è come l’apparire improvviso di una luce interiore all’anima:
“La conoscenza intuitiva (noesis) del mondo spirituale, puro, santo, lampeggiando all’improvviso come un fulmine nell’anima ci permise allora di toccare e vedere (la Suprema Realtà). Perciò sia Platone, sia Aristotele chiamano questa parte della filosofia l’iniziazione suprema (epoptikòn), in quanto coloro… che hanno toccato direttamente la pura verità circa essa(la realtà metafisica), ritengono di aver conseguito il fine della filosofia (télos philosophias), lo stesso che è nella iniziazione (en teletèi)”. (Aristotele, Eudemo, fr. 10; Colli, I, p.107)
Nella tradizione media e neo-platonica si adottò in effetti una tripartizione progressiva della filosofia, suddivisa in etica – fisica – epoptica: l’epoptica rappresentava il punto culminante del sapere e per questo corrispondeva alla metafisica ed alla teologia. Plutarco, uno dei più tipici rappresentanti del medioplatonismo, commentando la settima lettera platonica ribadisce che la filosofia ha il compito di superare il piano delle varie opinioni prodotte dall’intelletto discorsivo per poter così giungere ad una piena apprensione mistica, sovranazionale, del Principio Primo. Per questo, a suo parere, il fine della filosofia è conseguire quella condizione ‘epoptica’ della coscienza che è stato da sempre in Grecia il fine di tutti i misteri. Bisogna attraverso l’intuizione (noesis), dice Plutarco, ‘percepire’ il Principio primo del mondo che è ‘puro’ e ‘intelligibile’, cioè ‘spirituale’ e per questo conoscibile in virtù della sola coscienza. Tale ‘mondo’, cioè tale ‘realtà’, è ben diversa da quella ‘sensibile’, multiforme e caduca a cui ci limitano le nostre ‘corporee’ facoltà di percezione. Solo con l’intuizione se ne può avere conoscenza, si può ‘contemplarlo’. Con la ‘contemplazione’ c’è una pura estatica ‘visione’ del Principio Divino resa possibile attraverso l’arresto di ogni processo logico-discorsivo. Ma è proprio la ragione che per giungere a tale condizione contemplativa deve superare dialetticamente le opinioni e le dottrine da essa stessa elaborate. Tale trascendimento si verifica quando ne percepisce l’inconsistenza e l’inadeguatezza ma permane lo slancio conoscitivo, il desiderio ‘erotico’ di conoscenza, cioè la filo-sofìa che orienta a quel punto l’anima verso l’Alto:
“È sempre puro il principio, non può essere mescolato ciò che è primo e intelligibile. [...] E l’intuizione (νόησις) dell’intelligibile, del puro e del semplice, che lampeggia attraverso l’anima come un fulmine, permette talvolta di toccarlo(θιγε&ιν) e di contemplarlo (προσιδειν) tutto d’un tratto (απαξ). È per questo che Platone e Aristotele chiamano epoptica (εποπτικον) tale settore della filosofia: alludendo cioè al fatto che quanti siano riusciti a superare con la ragione (τα λόγ&ω) il mondo delle varie opinioni, del composto, del multiforme, si slanciano verso ciò che è primo (τα πρωτον εκεινο), semplice e immateriale; e se giungono a toccare direttamente (θιγόντες απλως) la verità pura che irraggia da esso, raggiungono come in una iniziazione il fine della filosofia (οιον εν τελετηι τελος)” (Platone, De Iside et Osiride, 382 d-e).
Teone di Smirne il filosofo e matematico, padre della celebre Ipazia (370/375 – 415 d. C.) la quale fu a capo della scuola neoplatonica di Alessandria sino alla sua tragica morte ad opera dei cristiani, ribadì con assoluta chiarezza tali concetti:
“La filosofia è, possiamo dire, una iniziazione (μύησιν) alla vera perfezione(αληθους τελετης) e una trasmissione dei veri misteri (αληθως μυστηρίων παράδοσιν). Vi sono cinque parti dell’iniziazione (μυησεως). La prima è la purificazione (καθαρμός) [...]. Dopo questa purificazione, viene la trasmissione dell’iniziazione (τελετης παράδοσις). La terza viene chiamata visione (εποπτεια).La quarta, che è la perfezione della visione (τελος της εποπτειας), è la fasciatura(ανάδεσις) e l’imposizione della corona (στεμμάτων επίθεσις), con la quale si è in grado di trasmettere agli altri le iniziazioni (τελετάς) acquisite, sia attraverso il portare le fiaccole (δαδουχίας), sia attraverso il mostrare le cose sacre(ιεροφαντίας) o qualche altro ufficio sacerdotale (ιερωσυνης). Al quinto e ultimo posto, risultato di tutto quanto precede, troviamo la felicità (ευδαιμονια) che deriva dall’essere amato da Dio (θεοφιλες) e dalla vita con gli dei (θεοις συνδίαιτον)” (Teone di Smirne, Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem, pp. 14-15 Hiller = pp. 20-23 Dupuis).
L’immortalità nella beatitudine
Il testo dell’inno ‘omerico’, il più antico dei Misteri Eleusini, ci conferma che già da epoca molto antica il mito ed il rito erano connessi alla speranza di una vita oltremondana felice:
 “…e Demetra a tutti mostrò i riti misterici, a Trittolemo e a Polisseno, e inoltre a Diocle, i riti santi, che non si possono trasgredire né apprendere né proferire: difatti una grande attonita e atterrita reverenza per gli dèi impedisce la voce. Felice colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose: chi invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù.” (Omero, Inno a Demetra, 476-482)
Il testo è straordinariamente significativo perché mette in correlazione i riti misterici (όrgia) con la ‘visione’- ‘mistica’, appunto!- (όpopen= ha visto) e lo stato di beatitudine (όlbios = felice). Altri elementi essenziali della tradizione eleusina già ben presenti nei versi sono quelli della assoluta segretezza circa l’intero rituale ed il fatto che esso non si possa ‘apprendere’ come una qualche ‘nozione’ o per conoscenza indiretta, né pertanto si possa ‘proferire’. Tale un silenzio non era solo imposto, per così dire, ‘esteriormente’, come cioè norma ‘convenzionale’da rispettare all’interno di quella particolare forma ed organizzazione religiosa, ma è un silenzio ‘sacrale’ perché legato ad una particolare esperienza di ordine metafisico, dunque ‘incomprensibile’ per i ‘profani’. Questi temi della segretezza, della ‘visione’ diretta del ‘divino’, della ‘beatitudine’ anche oltremondana riservata agli iniziati, della ineffabilità, non solo collegano in quella lontana antichità la tradizione mistico-esoterica occidentale con quella orientale (si pensi alle Upanishad) ma, si può dire, costituiranno l’essenza stessa dell’esoterismo ‘filosofico’ greco (da Pitagora a Plotino). Lo stesso Platone, del resto, ribadirà questi concetti nella sua celebre Settima Lettera. La celebrazione dei misteri si attuava in due fasi: a primavera venivano celebrati i Piccoli Misteri, che avevano un carattere preparatorio, quindi essenzialmente ‘catartico’, agli inizi di ottobre si celebravano i Grandi Misteri. Il tutto avveniva con pubblica solennità e tradizionali processioni da Eleusi ad Atene e viceversa. Quando il corteo degli iniziandi ritornava al tempio iniziava la sacra cerimonia, la teletè. Il rito, ci dicono le fonti, comprendeva tre elementi: 1) le ‘cose dette’ (ta legòmena); 2) le ‘cose compiute’ (ta dròmena); 3) le ‘cose mostrate’ (ta deiknymena). Il significato preciso di tale testimonianza è difficile da definire. Quello che sembra certo è che l’espressione ‘le cose dette’ non si riferisse ad una qualche ‘dottrina’ o, quantomeno, che il centro della esperienza iniziatica non consistesse in una astratta teoria ma in una trasmutazione indotta dello stato di coscienza dell’adepto. Su questo punto fu molto chiaro Aristotele un cui frammento (il 15, Sulla filosofia) pone una netta distinzione tra ciò che può essere appreso (diremmo noi per maggior chiarezza: ‘mentalmente, razionalmente’ e che lui qualifica come didaktikòn e ciò che, invece, si ‘apprendeva’ mistericamente per via intuitiva: tò telestikòn. Così dice infatti lo Stagirita:
“(Ciò che è didattico) gli uomini lo apprendono attraverso l’udito, invece ciò che è misterico lo si apprende quando la capacità intuitiva stessa (νους) subisce l’illuminazione (έλλαμψις)”, e autocitandosi aggiunge:
“Il che appunto fu chiamato anche ‘misterico’ da Aristotele e simile alle iniziazioni di Eleusi; in queste infatti l’iniziato (τελούμενος) è spiritualmente trasformato dalle sue visioni, ma non riceve un insegnamento” (Il testo in G. Colli, La Sapienza Greca, Milano, 1977, pp. 106-108. La personale traduzione che qui si presenta è leggermente difforme).
Gli studiosi ammettono comunemente che, alla luce dei pochi documenti pervenutici, è molto arduo capire la connessione tra il mito di Demetra ed il rito eleusino. È comunque certo che le testimonianze collegano costantemente il rito ed il particolare tipo di conoscenza che vi si acquisiva al destino oltremondano; anche Sofocle ci riporta tale diffusa convinzione: 
“… O tre volte felici
quelli fra i mortali che vanno nell’Ade dopo aver contemplato questi misteri: difatti solo per essi laggiù c’è una vita, mentre per gli altri lì vi sono tutti mali”. (Sofocle, fr. 837; Colli, p.95)
E Pindaro dice:
“Felice chi entra sotto la terra dopo aver visto quelle cose: conosce la fine della vita, conosce anche il principio del tutto dato da Zeus” (Pindaro, fr. 137; Colli, p.93)
 Non diversamente Aristofane fa così cantare gli iniziati nella loro beatitudine celeste:
 “Avanziamo sui prati fioriti dove abbondano le rose, giocando alla nostra maniera, la più vicina alle belle danze, sotto la guida delle Moire felici. Per noi soltanto è gioioso il sole e il lume delle torce, per tutti noi che siamo iniziati e abbiamo condotto una vita religiosa verso gli stranieri e i concittadini”. (Aristofane, Rane, 448-459; Colli, p. 97-99)
 E si noti come per Aristofane il ‘titolo’ della beatitudine sia connesso vuoi all’iniziazione, vuoi alla vita morale manifestata nei confronti degli altri, siano essi concittadini che stranieri. C’è un termine ricorrente con cui si esprime la ‘purezza’ degli iniziati, è òsioi, termine utilizzato anche nella tradizione orfica e bacchica come attestano Euripide (fr. 472, v. 15) e Plotino (Enn., I, 6, 6).
Che la purità non fosse solo rituale, cioè formale, lo attestano anche le prescrizioni che vietavano le iniziazioni agli ‘impuri’ come spergiuri, violatori dell’ospitalità, assassini.

Fonte: http://www.accademiaplatonica.com/i-misteri-eleusini/


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