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mercoledì 18 dicembre 2013

Le lettere ai morti nell’antico Egitto

Le lettere ai morti nell’antico Egitto

Il forte legame degli antichi Egizi con la sfera funeraria e ultraterrena è un concetto noto a grandi linee anche ai profani. Ma dietro i maestosi monumenti tombali e le vestigia dei suggestivi rituali funerari, in che modo gli individui si rapportavano con la morte nel quotidiano? La scoperta di alcuni rari e interessanti testi, le lettere ai morti, ha aiutato a chiarire in parte la questione, aprendo una finestra sulle vicende di vita privata della gente comune.

Il rapporto tra i vivi e i morti
Nell’antico Egitto la morte non era considerata la definitiva conclusione della vita (come, del resto, in molti culti religiosi antichi e odierni), ma il passaggio a una forma di esistenza superiore ed eterna. Il mondo terreno e l’aldilà non erano, però, del tutto separati e, anzi, sussisteva una stretta interazione tra le due sfere.
Da un lato, la pietà dei vivi verso i propri defunti – che si palesava nelle offerte funerarie, nei rituali e nelle pratiche cultuali che interessavano la tomba e la mummia – era indispensabile per garantire a questi ultimi sostentamento, protezione e benessere nell’aldilà. Dall’altro lato, si credeva che i defunti, a loro volta, fossero in grado di influenzare il mondo terreno e di intervenire nelle vicende dei vivi, positivamente o negativamente. Gli antichi Egizi ritenevano, dunque, di poter rimanere in contatto con i loro familiari deceduti quotidianamente. La forma di comunicazione forse più caratteristica era la stesura di vere e proprie missive, denominate, pertanto, “lettere ai morti”.

La scoperta delle lettere
Tali documenti epistolari (1) furono individuati per la prima volta nel 1914 dagli egittologi Alan Gardiner e Kurt Sethe. Da allora, gli studi e le ricerche archeologiche hanno progressivamente arricchito di nuovi esemplari – provenienti da diversi siti egiziani – questo primo nucleo di testi, fino all’ultima epistola scoperta alla fine del secolo scorso dall’egittologo Edward Wente.
Nonostante ci sia pervenuto un numero esiguo di lettere – complessivamente 14 – la loro diffusa distribuzione geografica suggerisce l’esistenza di una pratica religiosa estesa a tutto il territorio egiziano. In base alla datazione dei documenti epistolari rinvenuti, tale consuetudine si mantenne viva per un arco temporale compreso tra la VI e la XXVI dinastia (2), ma il nucleo più consistente – nonché il più antico – risale alla fase tra il Primo Periodo Intermedio e il Medio Regno (fine del III millennio – prima metà del II millennio). La documentazione epistolare riguarda interamente l’élite(per lo meno, la popolazione istruita), ma non è da escludere che ciò sia dovuto soltanto a una casualità dei ritrovamenti (3).


Le lettere nella religiosità egizia
Per definire il ruolo delle lettere ai morti nell’ambito della religiosità egizia, è fondamentale precisare che tali documenti non rispondevano mai al semplice bisogno di comunicazione con i defunti, bensì esprimevano, in tutti i casi, una richiesta concreta e ben precisa. La loro stesura era legata ad avvenimenti di particolare gravità, per far fronte ai quali le sole risorse umane si erano rivelate vane e insufficienti, inducendo gli antichi Egizi a rivolgersi al sovrannaturale (un atteggiamento non del tutto estraneo neppure all’uomo di oggi); tramite le lettere, dunque, ai defunti era chiesto di prestare aiuto nelle avversità che angosciavano i loro cari ancora in vita.
Tali documenti costituiscono, dunque, un’eccezionale testimonianza storica: essi esprimono, innanzitutto, l’atteggiamento personale e privato degli antichi Egizi verso la morte e i defunti – un aspetto della religiosità ignorato dagli antichi documenti ufficiali; inoltre, offrono un prezioso e raro spaccato sulle questioni e le vicende della vita quotidiana.

La struttura dei testi
Le lettere erano strutturate secondo uno schema ricorrente:
•Introduzione: il mittente si presentava allo spirito del defunto tramite una formula standard, del tipo “È un figlio che parla a suo padre”. Come in un qualsiasi testo di questo genere, si rivolgevano al defunto saluti, domande sulla sua condizione nell’aldilà e auguri di un’eternità beata.
•Esposizione dei fatti: era riportata una sommaria illustrazione del problema che affliggeva l’autore della lettera. Qui si dispiegava un coacervo di fatti e personaggi che dovevano essere familiari al destinatario e che, a volte, si riferivano anche a episodi accaduti quando egli era ancora in vita.
•Richiesta d’aiuto: si pregava il defunto di intervenire, in nome della pietà che il vivo aveva dimostrato nei suoi confronti, sia in vita sia dopo la morte, e dietro la promessa di offerte future.

L’argomento delle lettere
Le questioni affrontate nelle lettere sono le più disparate, poiché qualsiasi circostanza particolarmente critica poteva necessitare il ricorso al potere dei morti: una malattia per la quale si chiedeva la guarigione, il desiderio di generare figli sani, il bisogno di protezione da entità malvagie, dispute legali riguardanti questioni di eredità e proprietà ecc.
Tra i casi più curiosi vi è, ad esempio, quello di una donna, Irti, e suo figlio, Iy, che si rivolgono al marito e padre defunto a causa di una sottrazione di beni. Dalla lettera si apprende che alcuni individui “hanno devastato la tua casa, prendendosi ogni cosa che si trovava in essa” (Lettera su lino del Cairo CG25975). Chi siano tali individui e con quale diritto si siano appropriati degli averi del defunto non è comprensibile dalla lettura, ma Irti sembra abbastanza sicura che l’espropriazione sia illecita e che i beni spettino al figlio in eredità. Il testo si carica di passione e costernazione quando la donna cerca di destare la sensibilità del defunto e di richiamargli alla mente l’importanza di una giusta e regolare trasmissione del patrimonio di famiglia: “Il tuo cuore rimarrà indifferente riguardo ciò? […] Sollevati insieme ai tuoi padri, i tuoi fratelli e i tuoi compagni [contro di loro]”.
Talvolta, si riteneva che la causa della sventura fossero i defunti stessi; i loro malvagi tentativi di ostacolare o danneggiare le persone erano imputati a un’inadeguata pratica del culto funerario o a un qualsiasi torto commesso dai vivi nei loro confronti. In questi casi, il mittente ricordava con fervore al defunto di non avere nessuna colpa e di avere, anzi, fatto il possibile per lui mentre questi era in vita e anche dopo la sua morte.
In un altro interessante esempio, infatti, un uomo di nome Heni scrive al padre nell’aldilà, perché tormentato dal servo di quest’ultimo, il defunto Seni, che gli appare continuamente in sogno. Il motivo di una tale ostilità è un’aggressione subita da Seni quando era ancora in vita (causa, forse, della sua morte), di cui lo spirito del servo ritiene responsabile Heni. L’uomo sostiene strenuamente la sua innocenza, tuttavia confessa di essere stato testimone del crimine: “Altri hanno commesso ciò in presenza di questo umile servo (in mia presenza)” (Papiro di Naga ed-Deir N3737). Heni prega, infine, il padre di tenere a bada Seni e porre, dunque, fine alla sua angoscia (dietro cui si cela, forse, un senso di colpa consapevole o inconscio).

Le modalità di consegna
Le lettere erano depositate all’interno delle tombe e associate alle offerte funerarie, in modo da propiziarsi lo spirito del defunto, come una sorta di captatio benevolentiae. I supporti scrittori impiegati erano diversi: le lettere più prolisse furono scritte su papiro (indice anche di elevato statussociale) e almeno una su un lembo di lino; la maggior parte di esse fu, invece, iscritta all’interno di recipienti in terracotta impiegati come contenitori per le offerte alimentari, cosicché lo spirito del defunto che si fosse avvicinato per nutrirsi, avrebbe inevitabilmente notato la lettera sul fondo del contenitore.



Una lettera ai morti, scritta sul fondo di una ciotola di terracotta.


Il destinatario
Le lettere finora scoperte erano state tutte indirizzate a un membro della famiglia deceduto recentemente. A esso ci si riferiva con termini ed espressioni che non lasciano dubbi circa la natura ultraterrena del destinatario della missiva. Innanzitutto, egli era invocato come akh, termine che denotava uno dei principi spirituali di ciascun individuo (4): esso è, probabilmente, da interpretare come lo spirito trasfigurato del defunto che ha raggiunto la massima beatificazione e ha avuto accesso al mondo celeste. Il termine significa letteralmente “essere attivo”, con ovvio riferimento al potere dei defunti di influire sulle vicende terrene.



Raffigurazione dell’akh, rappresentato come ibis crestato.


Oltretutto, in alcuni casi è esplicitamente menzionato l’oltretomba come luogo in cui si trova il destinatario:
•“Come stai? L’Occidente si prende cura di te secondo il tuo desiderio” (Lettera su stele perduta).
•“Come eri eccellente sulla terra, così adesso sei rispettabile nella necropoli” (Coppa del Louvre E6134).
•“ […] tu sei stata portata qui nella città dell’eternità (5)” (Coppa di Berlino 22573).

Le modalità di intervento dei defunti
In che modo i defunti potevano aiutare concretamente i vivi? Molte lettere possiedono una sfumatura legale, poiché vi è spesso fatto riferimento a un tribunale ultraterreno, di cui facevano parte gli spiriti dei morti e in cui si disputava un vero e proprio processo: ciò implicava un sistema giudiziario nell’aldilà che aveva impatto sia sui vivi, sia sui morti – ma i cui precisi effetti sono ancora da chiarire.
Un altro modo di intervento era il sogno. Come in molte altre culture, anche nell’antico Egitto la dimensione onirica era considerata un canale di comunicazione con il piano trascendente; in particolare, si riteneva che il sogno istaurasse un collegamento tra il mondo terreno e l’oltretomba: in uno degli esempi menzionati in precedenza, lo spirito di un morto è in grado di perseguitare una persona in sogno; in un’altra lettera, un uomo di nome Merirtifi prega la moglie defunta di guarirlo dalla sua malattia, giacché si è sempre occupato diligentemente del suo culto funerario; egli scrive:
“Diventa uno spirito per me davanti ai miei occhi cosicché io possa vederti in sogno lottare in mio favore. Sorto il sole, ti porterò offerte e preparerò l’altare (per un sacrificio)” (Lettera su stele perduta).
Il passo appena citato ha indotto gli studiosi a supporre che Merirtifi avesse trascorso la notte nella cappella funeraria della moglie. Si è, forse, di fronte al più antico caso di incubazione dell’antico Egitto (6): si tratta della pratica di dormire in un luogo sacro allo scopo di ricevere, in sogno, rivelazioni oppure di ottenere la guarigione.

Note
•1) Le lettere sono state scritte in ieratico, forma corsiva della scrittura egizia, sviluppatasi parallelamente al geroglifico.
•2) Dopo tale data, il formulario e le intenzioni delle lettere ai morti furono assorbiti da un nuovo genere, quello delle lettere alle divinità.
•3)È possibile che il fenomeno fosse diffuso fra una porzione più ampia della popolazione, in grado di avvalersi del lavoro di uno scriba.
•4) Gli altri principi spirituali erano il ka e al ba. Il primo era la forza vitale di ciascun individuo e, anche dopo la morte, dipendeva dal sostentamento materiale e dal cibo offerto dai vivi; il ba era, invece, ciò che più si avvicina al moderno concetto di anima e costituiva la personalità di ciascun individuo.
•5) “Occidente” e “città dell’eternità” erano due dei sinonimi impiegati abitualmente per indicare l’aldilà.
•6) Tale pratica religiosa era diffusa in Egitto per lo più in epoca greco-romana (a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C.).



Fonte: http://www.antika.it/0014439_le-lettere-ai-morti-nellantico-egitto.html

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