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domenica 4 dicembre 2011

Ossidiana nel Mediterraneo 1° parte di 2


L’approvvigionamento e la distribuzione dell’ossidiana nel
Mediterraneo Centrale e Occidentale
di Robert Tykot
(Traduzione di Paolo Melis)

Fonte: “Journal of Mediterranean Archaeology, vol. 9(1), 1996

Riassunto

L’ossidiana è stata a lungo identificata come un indicatore di scambi marittimi su lunga distanza nel Neolitico del Mediterraneo centrale e occidentale. Gli studi precedenti hanno individuato e caratterizzato chimicamente i principali giacimenti insulari, ma alcuni sforzi susseguenti sono stati rivolti alla determinazione della provenienza di un significativo numero di manufatti da contesti archeologici sicuri. Questo articolo presenta nuove interpretazioni dell’approvvigionamento e
distribuzione dell’ossidiana basate sull’identificazione chimica e visuale dei giacimenti di provenienza di oltre 2700 manufatti rinvenuti in siti insulari e continentali di Francia e Italia, e discute la dinamica spaziale e temporale, il ruolo economico e sociale dell’ossidiana. Infine, si ipotizza che lo scambio di prestigio su lunga distanza di ossidiana e altri materiali sia stato un’importante modo per il mantenimento delle relazioni etniche o parentelari nel rafforzare le società sedentarie del Neolitico.
Introduzione
Gli archeologi usano comunemente i concetti di “commercio” e “scambio” per spiegare la presenza di materie prime o manufatti non locali nei siti archeologici. Con l’introduzione di metodi strumentali di analisi chimica e la loro applicazione con successo agli studi archeologici sulla provenienza di materiali come l’ossidiana, è diventato possibile definire un oggetto non soltanto come una “importazione” ma anche come identificatore di uno specifico giacimento di provenienza dei sui componenti di materia prima. Questo ha stabilito tanto il punto di inizio che quello finale nella “catena operatoria” litica, ed ha aperto la possibilità di esaminare i passaggi intermedi con un dettaglio maggiore. L’interpretazione del contesto sociale di diversi modi di scambio nelle società preistoriche è stato il soggetto di considerevoli ricerche per alcuni decenni, e la possibilità di associare alcune modalità di commercio con particolari livelli di complessità sociale divenne un interesse centrale dell’archeologia processuale ed il suo fine quello di raggiungere i più alti livelli di deduzione partendo dai dati archeologici statici.
Sembrava evidente che lo scambio avrebbe potuto essere interamente compreso entro i contesti sociale ed economico attinenti la società in questione, strutture che tuttavia rimane difficile definire senza dati storici o etnografici. Numerosi studi negli anni ’70 e ’80 hanno fatto uso di modelli matematici generalizzati e euristici per interpretare i modelli di distribuzione dei manufatti. Fra i meglio conosciuti, sono il “gravity model”, usato per descrivere le zone di interazione in cui differenti fonti di approvvigionamento “competono” per spartirsi il mercato, e le curve di “fall-off” della frequenza dei manufatti in contrapposizione con l’incremento della distanza dalla loro fonte di approvvigionamento. La forma della curva di “fall-off” è determinata da particolari meccanismi di scambio, e l’inclinazione da fattori quali la domanda, i costi di trasporto e la disponibilità di materiali alternativi. Ci sono numerosi problemi impliciti in questi modelli. Ammerman in particolare ha notato che questi modelli presuppongono che lo scambio sia stato non sporadico, ininterrotto, e che essi non tengono in considerazione variazioni temporali nel comportamento, la crescita della popolazione, le variazioni di dimensioni dei siti e l’eterogeneità dei “dropping rates”. Ci sono anche altre variabili che necessitano di essere prese in considerazione, come una partecipazione differenziata nella rete di scambi, le attività stagionali, e la probabilità che alcuni meccanismi di scambio siano stati in uso nello stesso tempo. Gli oggetti possono essersi mossi da soli (per commercio o dono di scambio); possono aver circolato al seguito di individui (commercianti, artigiani, spose), o con gruppi di persone (migrazione, colonizzazione, guerra, scorribanda). Le variazioni locali nelle risorse, nel trasporto, nella densità di popolazione e nell’organizzazione sociale avrebbero prodotto distinte situazioni regionali che possono essere amplificate dalle differenze nei metodi di ricerca archeologica sul campo, nella strategia di campionamento e nella dimensione del campione. Ultimamente, è stato anche riconosciuto il problema dell’equifinalità, poiché differenti meccanismi di scambio possono essere risultati nella stessa distribuzione di manufatti. Nonostante queste considerazioni, alcuni hanno fatto una esplicita connessione interpretativa fra gli spesso citati modi di scambio di Polanyi (reciprocità, redistribuzione, scambio di mercato), i multipli meccanismi caratteristici di ciascuno, e le loro manifestazioni nel complesso dei dati archeologici. Questi problemi, unitamente alla diseguale qualità della maggior parte dei dati archeologici, hanno portato Bietti Sestieri a suggerire che la quantificazione dei dati esistenti dovesse essere una priorità più alta di quella dell’elaborazione dei modelli teoretici:
“ ….. non si dovrebbe fare a meno di chiedersi se, in realtà, la più efficace applicazione di metodi matematici all’archeologia sia nell’elaborazione di dati su una base quantitativa e statistica, indipendentemente dal grado di formalizzazione del modello”.
Questo criticismo è particolarmente rilevante per l’ossidiana del Mediterraneo centrale e occidentale, dove i giacimenti stessi non furono ben caratterizzati sino a poco tempo fa, e dove alcuni studi di provenienza hanno esaminato significative quantità di manufatti – la maggior parte da contesti archeologici non sicuri o inappropriati che hanno precluso l’applicazione di modelli matematici. Forse a causa delle limitate capacità di produrre dati di scambio quantificabili, molti studi recenti sull’industria litica del Mediterraneo hanno posto più l’accento sull’approvvigionamento, piuttosto che sulla distribuzione dei manufatti.
La quantificazione e interpretazione dei dati di provenienza dell’ossidiana è il punto focale del lavoro che segue. L’applicazione di nuovi metodi analitici permette la costruzione di modelli geografici e cronologici statisticamente significativi dello sfruttamento dei giacimenti di ossidiana, e nuovi schemi interpretativi ristabiliscono gli scambi come criticamente importanti per la comprensione di tutti i passaggi della “catena operatoria”. Come il maggiore indicatore visibile delle interazioni Neolitiche, l’uso dell’ossidiana è anche rilevante per l’esame del più antico popolamento delle isole del Mediterraneo, della transizione dal modo di vita di caccia e raccolta a quello agricolo, alla rete di scambi su lunga distanza, alla specializzazione artigianale, allo sviluppo della differenziazione sociale e altri precursori delle più complesse società delle età del Rame e del Bronzo.
I giacimenti di ossidiana del Mediterraneo
Nella regione mediterranea, l’esistenza di un limitato numero di giacimenti di ossidiana adatta per la produzione di strumenti di pietra è conosciuta da un tempo abbastanza lungo. Praticamente tutti i manufatti di ossidiana trovati in siti archeologici del Mediterraneo centrale e occidentale provengono da quattro giacimenti di isole italiane: Lipari, Palmarola, Pantelleria e Sardegna. I giacimenti Carpazi, nel Sud-Est della Slovacchia e nel Nord-Est dell’Ungheria sono responsabili per alcuni manufatti ritrovati nel Nord dell’Italia, presumibilmente altri in Dalmazia, e alcuni nella Macedonia greca. L’ossidiana di Melos è stata confermata in appena un solo sito a Ovest della penisola Balcanica e alcuni pezzi di ossidiana anatolica sono stati identificati nell’Europa Orientale e in Grecia. Appare vero anche il contrario: finora, non un solo frammento di ossidiana del Mediterraneo centrale è stato documentato a Est della punta estrema meridionale della Penisola Italiana, nonostante la presunta presenza di ossidiana sarda in Bosnia segnalata diversi anni fa in una comunicazione ad un congresso.
Lipari
Lipari, localizzata una trentina di chilometri a Nord della parte nord orientale della Sicilia, è la più vasta delle Isole Eolie, con circa 38 kmq. Ossidiana nera e trasparente di eccellente qualità può essere trovata oggi in numerose località di Lipari, ma quella delle colate di Forgia Vecchia e Rocche Rosse (inclusa Punta Castagna), e del cono Fossa a poca distanza dall’isola di Vulcano, derivano da eruzioni di età storica e non erano dunque disponibili per lo sfruttamento preistorico. Sebbene le più antiche colate di ossidiana siano presenti ad Acquacalda, Vallone Gabbellotto (inclusa la spiaggia di Papesca e la colata di Pomiciazzo-Lami), e Monte della Guardia (incluso Praia di Vinci), le date con le tracce di fissione su 66 manufatti di ossidiana di Lipari provenienti da siti archeologici in Italia indicano che Gabellotto fu il principale giacimento utilizzato nell’antichità. Le analisi chimiche di campioni di colate sia recenti che preistoriche dimostrano in conclusione che ci sono trascurabili differenze negli elementi che le compongono.
Palmarola
Palmarola è la più occidentale fra le isole Pontine, localizzate a Ovest di Napoli nel Golfo di Gaeta, circa 35 km dal continente. Le colate di ossidiana sono state trovate a Sud del Monte Tramontana in una “crosta domale” che attraversa tutta l’isola, e lungo la costa orientale di Palmarola sino all’estremità sud-orientale di Punta Vardella dove si rinviene in blocchi neri, opachi, delle dimensioni di un pugno. Sebbene le analisi non abbiano evidenziato alcuna differenza chimica nell’ossidiana delle differenti località di Palmarola, rendendo impossibile determinare se Punta Vardella sia stato il solo giacimento utilizzato, le piccole dimensioni dell’Isola (meno di 3 kmq) fanno si che questa distinzione sia di scarso significato archeologico.
Pantelleria
Pantelleria, una piccola isola piriforme di circa 8x13 km, si trova nello Stretto di Sicilia, circa 90 km a Est di Capo Bon, Tunisia. Pantelleria è una località tipo per le rocce peralcaline, in particolare la sua ossidiana verdastra ricca di Sodio e Ferro conosciuta come Pantellerite. L’ossidiana di Pantelleria è dunque prontamente distinguibile da quelle degli altri giacimenti del Mediterraneo occidentale sulla base di un esame visuale. Francaviglia ‘, nel 1988, ha isolato da un punto di vista chimico cinque gruppi di giacimenti a Pantelleria: tre giacimenti “differenziati verticalmente” esposti a Balata dei Turchi; gli altri due a Gelkhamar e Lago di Venere. Analisi chimiche di manufatti da Pantelleria, Malta, Sicilia e dal continente dimostrano che il filone superiore (quindi il più recente) di Balata dei Turchi fu il più comunemente usato, ma che anche l’ossidiana nero-pece di Gelkhamar (ancora più recente) fu ugualmente impiegata, persino in Sicilia. La grande varietà nelle date con le tracce di fissione su manufatti archeologici suggerisce anche l’uso di diversi giacimenti, ma questi dati non possono essere ancora correlati con i gruppi chimici di Francaviglia. Come Palmarola, Pantelleria non fu abitata durante il Neolitico, e non è probabile che siano esistiti tanto un “accesso differenziale” ai giacimenti quanto un’estrazione organizzata dell’ossidiana.
Sardegna
La Sardegna, a differenza di tutte le altre isole del Mediterraneo con giacimenti di ossidiana, è un territorio piuttosto vasto con un’area di 24.000 kmq e una storia di occupazione che si data a partire dal Paleolitico Superiore. I letti di ossidiana nel complesso vulcanico del Monte Arci sono stati descritti per la prima volta dal La Marmora (1839-40) ed in seguito da Washington (1913); una completa ricognizione della zona del Monte Arci fu condotta da Puxeddu (1958) come parte della sua Tesi di Laurea in archeologia presso l’Università di Cagliari. Questo contributo preliminare include una dettagliata descrizione dei giacimenti di ossidiana e dei siti archeologici nella regione del Monte Arci. In un’area di circa 200 kmq che oggi include 19 cittadine o villaggi, Puxeddu trovò 246 siti con ossidiana, inclusi quattro che egli classificò come giacimenti. La successiva constatazione che almeno tre gruppi chimici (SA, SB, SC) erano rappresentati fra i materiali archeologici analizzati, ha sollevato problemi su quali giacimenti siano stati utilizzati, dal momento che soltanto uno è stato analizzato, e nelle raccolte archeologiche è stata spesso riconosciuta tanto ossidiana translucida che opaca. A seguito di ricognizioni geologiche dettagliate dell’intero complesso del Monte Arci, furono fatti diversi tentativi di caratterizzare chimicamente i vari affioramenti di ossidiana. Sebbene tutti abbiano avuto successo a questo riguardo, la sola informazione disponibile di questo primo studio proviene da una brevissima comunicazione ad un congresso; uno sforzo indipendente di Francaviglia (1986), ancora non completamente pubblicato, non fornisce dettagli sui giacimenti stessi; e l’inedita dissertazione di Herold (1986) non fa alcun tentativo di accoppiare giacimenti chimicamente definiti con materiali archeologici. Più recentemente, la mia personale ricognizione della zona del Monte Arci ha localizzato il giacimento SC in situ per la prima volta, e materiali geologici di cinque giacimenti (SA, SB1, SB2, SC1, SC2), rappresentati fra i manufatti archeologici, sono stati interamente descritti e caratterizzati chimicamente. Cosa assai più importante, è stato dimostrato che tutte le distinzioni archeologicamente significative fra i giacimenti di ossidiana del mediterraneo (Lipari, Palmarola, Pantelleria, SA, SB1, SB2, SC, Melos, Giali) possono essere fatte in base alla maggiore/minore composizione di elementi, permettendo analisi quantitative ancora poco costose e minimamente distruttive usando una microsonda elettronica (con gli spettrometri a raggi X a dispersione di lunghezza d’onda), su centinaia di manufatti archeologici da siti neolitici nel Mediterraneo centrale. Inoltre, è stato scoperto che la frequenza di ciascun giacimento di ossidiana rappresentato in una raccolta litica potrebbe essere ragionevolmente valutata da un esame visuale non distruttivo dell’intero gruppo di oggetti; la ridotta accuratezza della determinazione visuale della frequenza dei giacimenti può essere meno significativa dell’errore di campionamento comunemente associato con le analisi chimiche di quantità selezionate di manufatti.
Modelli di distribuzione
Manufatti di ossidiana sono stati identificati in oltre 1000 siti archeologici nel Mediterraneo centrale e occidentale, inclusi praticamente ogni sito della Sardegna e della Corsica, e molti se non la maggior parte dei siti neolitici in Sicilia, Italia peninsulare e Francia mediterranea. Alcuni siti con rinvenimenti di ossidiana sono noti a Nord del fiume Po, nell’Adriatico orientale, o in Nord Africa. Gli strumenti di ossidiana sono particolarmente abbondanti nelle o presso le isole con i giacimenti, raggiungendo una percentuale del 100% nei complessi litici, mentre l’eccessiva abbondanza di siti distanti con presenza di ossidiana cela l’effettiva scarsità di manufatti in questo materiale rinvenuti nella maggior parte di essi. In netto contrasto con il Mediterraneo orientale, l’uso dell’ossidiana è strettamente associato con civiltà agro-pastorali che utilizzano la ceramica, a partire dal Neolitico Antico. Nella discorso che segue, io combino i risultati delle mie personali ricerche con precedenti analisi al fine di descrivere lo sfruttamento e la distribuzione dell’ossidiana sarda in particolare, come pure i più generali modelli cronologici e geografici che appaiono nell’uso dell’ossidiana del Mediterraneo centrale e occidentale.
Selezione del campione
L’imprecisa natura del complesso di dati archeologici presenta molti problemi per l’interpretazione dei modelli di distribuzione dell’ossidiana. Scavi, come anche pubblicazioni, sono di diseguale qualità, e quei siti scavati possono essere non rappresentativi dei modelli di insediamento per la loro
localizzazione, per la cronologia o per il tipo di sito (ad esempio, l’enfasi posta sui siti in grotta in contrapposizione ai siti in piena aria). Per il periodo neolitico, ci siamo al momento limitati a collocare i contesti dei siti entro un arco di tempo di qualche secolo al massimo, in modo tale da evidenziare l’uso “contemporaneo” dell’ossidiana in diversi siti, che è più verosimile che comprimere molte generazioni di attività umana e omogeneizzare i modelli di breve durata che possono essere realmente eterogenei (sia intenzionalmente che casualmente). I complessi litici provenienti da vecchie collezioni rappresentano scarsamente le piccole schegge di “debitage”, mentre aumentano la probabilità che ogni manufatto raccolto rappresenti un differente momento di lavorazione. Inoltre, i manufatti di ossidiana nelle collezioni dei musei possono non essere una selezione casuale del complesso di strumenti usati in un sito. Infine, alcuni siti hanno piccole quantità di manufatti analizzati, rendendo impossibile trarre molte conclusioni circa il loro modello di distribuzione con qualsiasi margine di affidabilità statistica, sebbene alcuni tentativi siano stati fatti per associare i risultati da diversi siti, e in alcuni casi attraverso una combinazione preliminare delle prove distribuzionali da siti Neolitici, dell’età del Rame e del Bronzo, prima di esaminare specificamente ciascuna età o periodo culturale in dettaglio.
Sardegna
All’interno della Sardegna, sembra che una distinzione possa essere fatta tra la zona di approvvigionamento dell’Oristanese, dove i complessi litici sono composti interamente di ossidiana che molto probabilmente fu acquisita direttamente dai suoi giacimenti, ed il resto dell’Isola, dove l’ossidiana probabilmente fu ottenuta indirettamente attraverso lo scambio e può anche essere meno frequente di selce, quarzite o altri materiali litici. Le raccolte di superficie di diverse migliaia di strumenti di ossidiana in siti dell’area di Oristano Campidano, inclusa la stessa zona del Monte Arci, illustrano la pronta disponibilità e lo sfruttamento di questo materiale nella Sardegna preistorica. Puxeddu (1958) infatti identificò 11 centri di raccolta e 74 siti di lavorazione sul Monte Arci, basati sulla forme litiche (nuclei, strumenti da taglio, schegge, lame) rinvenute in ciascuno. Sfortunatamente, non ci sono materiali associati per datare queste attività di approvvigionamento e produzione, sebbene la quantità ed il tipo di manufatti che Puxeddu ha raccolto suggeriscono che questi siano prevalentemente Neolitici. L’ossidiana continuò ad essere la più importante materia prima litica usata in Sardegna durante l’età del Rame, del Bronzo e del Ferro, ma la sua presenza ubiquitaria derivante dall’uso più antico preclude di sapere se l’ossidiana di taglio fresco o meno fosse stata prelevata direttamente dai giacimenti oppure riciclata dalle precedenti occupazioni del sito. Le datazioni dello strato di idratazione dell’ossidiana da siti della Sardegna ha frequentemente identificato manufatti riusati o rideposti (come quelli con età molto più vecchia del loro contesto.
Analisi chimiche e visuali di ossidiana da 61 siti in Sardegna indicano che tutti e quattro i giacimenti del Monte Arci furono utilizzati nei siti neolitici della regione oristanese, ma che l’ossidiana dei tipi SA e SC fu molto più comunemente sfruttata. La disponibilità di considerevoli quantità dell’ossidiana di tipo SC nella costa centro-occidentale della Sardegna suggerisce che il “valore” (fattori più o meno tangibili della qualità di scheggiatura) dell’ossidiana tipo SC era almeno equivalente a quello del tipo SA, dal momento che i costi di approvvigionamento (tempo e sforzo) per il tipo SC furono probabilmente un po’ più elevati di quelli per il tipo SA. L’ossidiana del tipo SA è stata sempre considerata di qualità più fine rispetto al tipo SC, ma l’uso approssimativamente uguale del tipo SC nell’area di Oristano suggerisce che almeno gli artigiani locali non facevano una grande distinzione su questa base. In Sardegna, l’esame preliminare delle frequenze dell’uso dell’ossidiana relativo alle diverse province, per i diversi giacimenti del Monte Arci, rivela significative differenze geografiche. Nella Sardegna meridionale (Provincia di Cagliari), l’ossidiana SB è usata a malapena (meno del 5%), laddove nella Sardegna settentrionale (Provincia di Sassari) arriva al 33% dell’ossidiana testata; il tipo SA è due volte più frequente nel Sud della Sardegna rispetto al Nord (36% contro il 19%). Dal momento che la frequenza del tipo SC è abbastanza costante, questa distribuzione può essere spiegata meglio dalla relativa vicinanza del giacimento SB ai siti settentrionali, e del giacimento SA ai siti meridionali. Sorprendentemente, il tipo SB è meno comune nei siti della provincia di Oristano, per i quali i giacimenti SB sono i più vicini. Guardando i singoli siti nella Sardegna con 10 o più manufatti analizzati chimicamente, traspare una maggiore eterogeneità nei modelli dell’uso dell’ossidiana rispetto alla comparazione delle province di cui sopra. Nella Sardegna meridionale, il tipo SB è attestato soltanto a Tracasi; sebbene molto più comune dappertutto fra i campioni testati del Nord Sardegna, non è qui in effetti rappresentato affatto in tre dei sei siti con 10 o più analisi. La cronologia dei siti sembra essere almeno in parte la spiegazione. Molia e Liscia Pilastru sono siti del Neolitico Recente (Ozieri), e Monte d’Accoddi è del Neolitico Finale/Calcolitico, laddove la maggior parte dei manufatti dalla Grotta Filiestru sono del Neolitico Antico e Medio, come lo sono quelli da Monte Maiore - entrambi siti dove il tipo SB rappresenta più del 45% dei reperti di ossidiana. Sa Ucca de su Tintirriolu, con circa il 20% di ossidiana del tipo SB, è del Neolitico Recente, ma è giusto presso l’ingresso di Filiestru nella valle di Bonuighinu, così che il riuso dell’ossidiana di tipo SB localmente disponibile non può essere escluso. Anche le determinazioni visuali hanno rivelato l’assenza dell’ossidiana di tipo SB a Molia fra i 63 manufatti esaminati (in aggiunta ai 20 analizzati chimicamente), e soltanto 14 (su 189 = 7%) manufatti del tipo SB a Li Muri (anch’esso del Neolitico Recente). L’11% dei 114 manufatti di ossidiana del Neolitico Medio da Cala Villamarina sono stati identificati a vista come del tipo SB. Nella Grotta Filiestru, il solo sito in Sardegna con tutti e 4 i periodi del Neolitico in successione stratigrafica, 86 manufatti di ossidiana scelti casualmente sono stati analizzati chimicamente, e ulteriori 581 sono stati attribuiti visualmente al giacimento di provenienza. Tutti insieme, praticamente tutta l’ossidiana trovata nel sito - che costituisce un buon 20-30% del complesso litico - sono stati esaminati. Entrambe le serie di dati indicano che l’uso dell’ossidiana di tipo SB decresce decisamente con il tempo, per essere rimpiazzata soprattutto dall’ossidiana di tipo SC. Questa situazione è parallela a quella di Monte Maiore-Thiesi, dove il 58% dei 26 campioni analizzati per il Neolitico Antico (fase Filiestru) e soltanto il 26% degli 11 campioni del Neolitico Medio sono di ossidiana di tipo SB2.

Domani la 2° e ultima parte

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