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mercoledì 31 agosto 2011

Omero: l'Iliade


Il favoloso Omero: l’Iliade
di Pierluigi Montalbano

Continuiamo il nostro viaggio nella letteratura antica approdando, con l’Iliade, al mondo classico, cioè quello dell'antica Grecia, la terra che è considerata universalmente la patria della civiltà umana. Anche in altre regioni si erano sviluppate civiltà elevate capaci di produrre grandi opere d'arte, ma avevano avuto scarsi rapporti con l'Occidente. Invece la civiltà greca, la sua scienza, la sua filosofia, il suo ideale dell'armonia, dell'equilibrio, della bellezza, si diffusero in tutti paesi del Mediterraneo.
La Grecia a cui l’Iliade ci riconduce, non è nella gloriosa terra di Atene, non è la Grecia in cui vissero scultori come Fìdia, filosofi come Platone e Aristotele, uomini di Stato come Pericle, poeti come Eschilo, Sofocle ed Euripide, ma la Grecia primigenia, antica, dove ancora esisteva in ciascuno dei borghi e delle piccole città, una monarchia patriarcale. Quell’epoca per gli storici è avvolta tuttora nel regno dei miti e delle leggende.
Intorno al 1200 a.C. scoppiò fra il re greci e la città di Troia, che fioriva sulle coste dell'Asia, una lunghissima guerra. A noi è giunta una leggenda: la guerra sarebbe divampata per una bellissima donna di nome Elena, che Paride, principe troiano, avrebbe rapita e portata con sè. I greci, riunite le loro forze sotto il comando del re Agamennone, navigarono verso la città nemica, la cinsero d'assedio e la diedero alle fiamme. Poi presero la via del ritorno: molti andarono errando di lido in lido, di isola in isola, sbattuti dalle tempeste, perseguitati dalla vendetta degli dèi avversari, e rimisero piede in patria quando erano ormai vecchi. Ulisse, re di Itaca, tornò alla sua isola vent'anni dopo la partenza. Il Mediterraneo era un mare misterioso, infinito, dove le più incredibili meraviglie apparivano a ogni volger di prora, dove si favoleggiava abitassero esseri mostruosi e terribili. Di racconto in racconto, di bocca in bocca, le cose si trasformano, si ingrandiscono e acquistano sempre più sapore di leggenda. Tali vicende erano narrate da cantori girovaghi, i rapsòdi, che si recavano di città in città, intrecciando casi sempre nuovi, ampliando la materia esistente, inventando, ricreando, arricchendo l'epos con qualcosa di proprio, di personale. La Grecia era perciò risonante di meravigliose leggende quando nacque, 400 anni dopo la guerra di Troia, il più grande di tutti i rapsodi: Omero. Il fatto che la leggenda lo raffiguri come cieco, è significativo: i poeti hanno spesso gli occhi chiusi di fronte alle piccole cose di ogni giorno, ma ne vedono con la loro anima di ben più grandi e meravigliose. L’opera di Omero comprende due grandi poemi: l’Iliade che tratta della guerra di Troia (Ilio) e l'Odissea che narra il ritorno in patria di Ulisse (Odisseo).
Un poeta latino, Orazio, vissuto ai tempi di Cristo, racconta che da bambino dovette leggersi a scuola tutta l'Odissea, verso per verso, e per di più a forza di nerbate, se mostrava di averne poca voglia. I maestri di quel tempo andavano per le spicce. È probabile dunque che già il piccolo Orazio, e i suoi compagni, si siano chiesti che cosa ci fosse di vero nei fatti straordinari che andavano di mano in mano leggendo. Ma i ragazzi di allora avevano meno dubbi di quelli di oggi, erano più facili a credere. Da ogni parte, anche in famiglia, sentivano discorrere con molta serietà di dee e dei, che poi risultavano rissosi, intriganti, tali da odiarsi e sparlare l'uno dell'altro, da scendere in terra e mescolarsi di continuo tra le cose degli uomini. Per quei ragazzi gli dei mangiavano e bevevano ogni giorno, quando addirittura non si buscavano, per avere alzato il gomito. È naturale perciò che essi prendessero per buono e per vero il mondo di Omero, e che credessero a tante cose di fronte alle quali oggi si alzano le spalle.
Passarono i secoli. Gli uomini divennero sempre più presi dal dubbio e si giunse al punto che alcuni studiosi negarono ogni riferimento alle vicende narrate nell’Iliade e nell’Odissea. Favole, dissero, fantasie da ragazzi. E fecero a gara per dimostrare che non c'era nulla di vero, che Troia era esistita soltanto la fervida mente di Omero, come del resto gli eroi, le battaglie e tutte le meraviglie dei due poemi. Come credere ad esempio che Achille avesse in un solo giorno ucciso di sua mano 10.000 nemici? Che ci fossero state le sirene e il minotauro, centauri e ciclopi? Così tutto veniva confinato nel regno della leggenda, dei sogni, ma non per sempre.
Verso il 1870, un appassionato lettore tedesco dei poemi omerici, Enrico Schliemann, convinto che al fondo di quelle opere doveva esserci qualcosa di vero, volle scavare nei luoghi in cui l'antichissimo poeta aveva collocato Troia. Assoldò manovali e operai, dirigendo egli stesso, con la sola guida delle indicazioni che si potevano trarre dall’Iliade, i lavori di scavo. Un giorno vide la terra luccicare sotto un colpo di piccone e va lui stesso a scavare.
L’oro affiorava a ogni colpo, lavorato in diademi, braccialetti, collane, anfore e coppe. Un tesoro che rivelava la ricchezza la civiltà di una città antichissima, per tanto tempo creduta leggendaria. Non ci fu terra in cui non giunse la notizia e in quei luoghi si scoprirono anche i vari strati sovrapposti di Troia, più volte distrutta e riedificata. Tutto vero dunque ciò che Omero racconta? Vere anche le sirene e Polifemo? Si capisce bene che gli studiosi di oggi non arrivano fino a questo punto limitandosi a osservare che al fondo della storia narrata dal poeta c'è del vero ma la fantasia dei popoli ha poi circondato di favole quella vicenda.
È d'obbligo a questo punto far cenno della mitologia classica, ossia delle leggende e dei miti del mondo greco-latino, che hanno offerto tanta materia a scrittori e poeti di ogni tempo. Per i popoli antichi ogni forza, ogni elemento, ogni aspetto della natura possedeva una divinità: Nettuno era Dio del mare, Vulcano del fuoco, Apollo era il sole, Diana era la luna, Venere era la dea della bellezza, Minerva dell'intelligenza, Eolo il signore dei venti. Su tutti regnava Giove, mentre Giunone, sua moglie, aveva il primo posto fra le dee. La sede delle divinità si trovava nel cielo che sovrastava un monte della Tessaglia: l'Olimpo. La differenza essenziale fra dei e uomini consisteva nell'immortalità, propria solo dei Celesti. Il loro potere, perfino quello di Giove, era limitato, essendo tutti sottomessi a un nume più alto e invisibile: il fato. Accanto alle maggiori, si muoveva una folla di divinità minori: le ninfe del mare, delle selve e dei fiumi, i fiumi stessi e le sorgenti, e un certo numero di semidei, perché i Celesti non sdegnavano talvolta le nozze con uomini. Achille, ad esempio, era nato da un mortale (Pelèo) e da Teti, ninfa del mare.
Se l’Iliade non narra gli avvenimenti di tutti i 10 anni in cui durò la guerra di Troia, e si limita a un periodo di 49 giorni che precedette la caduta della città, è comunque ricca di duelli, di battaglie e di azioni eroiche. Il poema ha inizio con la rappresentazione di una pestilenza scoppiata nel campo dei greci e dovuta all'ira di Apollo, di cui il supremo condottiero, Agamennone, aveva offeso un caro sacerdote. Riunitosi il consiglio dei duci, una lite violenta divampa fra Achille e il primo dei re. Il divino guerriero abbandona per protesta il campo, e si ritira coi suoi in solitudine sdegnosa. Il danno degli achei è grave perché senza Achille l'esercito perde la fiducia nella vittoria. I troiani, imbaldanziti, corrono allora all'assalto e fanno una grande strage, sotto la guida di Enea e di Ettore. Quest'ultimo con supremo sforzo giunge fino le navi greche e vi appicca il fuoco. La desolazione degli achei è profonda, e ciascuno sente nel suo cuore che sarà la rovina di tutti se Achille non deporrà la sua ira e non tornerà a combattere. Ma l'eroe è irremovibile e dopo aver accolto un'ambasceria che sollecita il suo aiuto, pone un rifiuto netto e duro. Quando però Patroclo, l'amico carissimo, gli chiede di indossare le sue armi e correre al soccorso dei greci ricacciati fino alle navi, allora il generoso eroe non sa più opporsi, e consente che l'apparire della sua armatura atterrisca i Troiani. Se egli non scenderà in campo, le armi saranno pur sufficienti a rovesciare le sorti della battaglia. Ma Ettore scopre che sotto la fulgida armatura non si nasconde il possente Achille, ma un giovinetto più debole, anche se di gran cuore. Allora lo affronta e lo uccide. Il dolore terribile sofferto per la morte di Patroclo fa dimenticare ad Achille ogni rancore. Il dio vulcano fabbrica per lui nuove armi, e l'eroe scende di nuovo in battaglia compiendo una strage: Ettore stesso è trafitto dalla sua spada, il cadavere legato al cocchio e trascinato sotto le mura di Troia, davanti agli occhi della moglie e dei vecchi genitori. È una scena che muove a pietà e commozione. E commozione forse maggiore ci muove il re Priamo che, tremante di vecchiezza e senza alcuna scorta, si reca al campo dei greci, nella tenda di Achille, per supplicarlo di rendergli il cadavere del figlio. Egli riavrà il cadavere, lo riporterà nella città e vorrà per lui, approfittando di una tregua, solenni e magnifici funerali. A questo punto, e cioè con un atto di umana pietà, si conclude il poema della guerra.

Nell'immagine: un vaso greco con la scena di Achille che uccide Ettore.

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