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venerdì 5 novembre 2010

...ancora sui popoli del mare

Micenei in Sardegna o viceversa?
di Giuseppe Mura

Il rinvenimento di ceramiche micenee in diversi siti nuragici ha indotto gli studiosi ad ipotizzare la presenza dei Greci in Sardegna nel Bronzo ma lo studio sui contesti archeologici interessati esclude l’esistenza di veri e propri insediamenti: al di là della ceramica mancano le tipiche prove di una frequentazione straniera. Questo non esclude, naturalmente, le presenze dovute a circostanze accidentali, come quelle causate dai fortunali marini. Inoltre, gli stessi scavi, mostrano un dato indiscutibile: la ceramica in questione risulta introdotta in Sardegna prima della vera espansione in Occidente dei Micenei; tanto è vero che gli esperti in materia, per giustificarne la presenza nell’Isola, ipotizzano l’esistenza di una fase di “precolonizzazione”. Tuttavia, una fase di questo tipo, presuppone l’esistenza di un vettore capace di navigare nel mare d’Occidente nel periodo in cui i Greci non si erano ancora spinti verso il loro tramonto del sole; escludendo, quindi, i Micenei, i Fenici del Canaan perché ancora in fase di formazione e gli Egizi che mai si spinsero nel “Mare Nostrum”, il vettore in questione poteva essere solo quello nuragico. Le fonti risalenti al XIV a.C. segnalano la presenza dei Nuragici in Egitto e negli stati del Vicino Oriente nella veste di Sherden, presentandoli come guerrieri famosi per l’abilità nel combattimento con la grande spada di bronzo.
Nello stesso torno di secoli gli stessi Nuragici, nella veste di pirati Cari-Fenici, si insediano nelle Cicladi durante il regno del cretese Minosse. Successivamente questi pirati si trasferiscono dalle isole dell’Egeo nella regione anatolica della Caria. Ora, se davvero i Nuragici si spingevano nei lontani mari del Mediterraneo orientale non potevano non essere entrati in contatto col mondo greco, decisamente più vicino all’Egitto e all’Anatolia.

In tal caso, con quali modalità e con quale nome i Nuragici erano noti agli antichi greci? Una ricerca mirata a dare una risposta a questo quesito deve, evidentemente, partire dalla consultazione delle antiche fonti greche riferite all’Età del Bronzo. Ma quali sono queste fonti? Intanto bisogna tenere presente che la “memoria storica” dei Greci non poteva spingersi oltre la metà del II millennio a.C., quindi siamo all’incirca nel periodo che qui interessa. Concentriamo ora l’attenzione sulla regione greca dell’attuale Epiro, dove Apollonio Rodio fa trasferire i Feaci da Corfù quando l’isola venne conquistata da Corinto (VIII a.C.).[1] Molti secoli prima, cioè quando la civiltà micenea era ancora nella sua fase embrionale, lo stesso territorio risulta interessato dall’arrivo di genti definite come Pelasgi (ovvero provenienti dal mare), le quali si insediano nella località di Dodona[2] che, secondo Erodoto, ospitava il più antico oracolo della Grecia.[3] Lo storico Tucidide, narrando dei secoli che precedono la guerra di Troia, quindi siamo ancora nel medesimo periodo, ci informa che in quei tempi non esisteva neppure il nome “Grecia”: i nomi dei luoghi dipendevano dagli insediamenti di genti provenienti dall’esterno “ma soprattutto dai Pelasgi”,[4] tanto è vero che la regione in questione (quella dell’Epiro) prese il nome di “Pelasgia”.[5]
Al di là dei nomi dei luoghi i Pelasgi, insieme agli Egiziani, importano in Grecia tutte le divinità, ad esclusione del libico Posidone.[6] Naturalmente l’importazione dei nomi delle divinità comporta l’introduzione dei rispettivi culti, tra i quali “l’abitudine di venerare gli eroi”; questo culto non era praticato dagli Egiziani, quindi lo storico Erodoto lo attribuisce implicitamente ai Pelasgi.[7] Col trascorrere del tempo i Greci assimilano le vicende del santuario, tanto è vero che già ai tempi di Omero attribuiscono addirittura a Zeus l’epiteto di “Dodoneo Pelasgico”, forse a significarne l’importanza; lo stesso poeta chiama i sacerdoti di Dodona “Selli dai piedi sporchi”.[8] Gli eroi più famosi frequentano il famoso santuario, tra questi Odisseo[9] ed Eracle, il quale entrando nel bosco dei Selli riferisce che i vaticini provenivano dall’ascolto della “quercia dalle molte voci” e tramite le “voci di colombe”.[10] Queste ultime, secondo Erodoto, erano semplicemente delle donne che parlavano il linguaggio dei barbari (gli stranieri dei Greci), ecco perché i Dodonesi le scambiavano per colombe.[11] Ancora lo storico di Alicarnasso, noto per la pignoleria con la quale riferiva i dettagli nei propri racconti, a proposito di colombe ci informa sulla versione fornita direttamente dalle “profetesse di Dodona”, le quali dicevano che due di questi volatili, partiti dall’Egitto, sarebbero giunti in Libia e a Dodona; in quest’ultima località, posatasi su una quercia, la colomba ordinò, con voce umana, alle genti del posto di fondare il famoso oracolo.[12]
Un altro particolare culto importato dai Pelasgi in Grecia riguarda la moda di “rappresentare le statue di Ermes col membro virile eretto” che, a detta di Erodoto, faceva parte dei cosiddetti “misteri dei Cabiri”; la particolare moda venne adottata anche dai Pelasgi insediati a Samotracia e Atene.[13] I Pelasgi della futura capitale della Grecia diventano famosi anche per un altro motivo: ricevuto il compito di elevare un muro intorno all’acropoli, lo costruiscono e: “appena dunque gli Ateniesi l’ebbero visto tutto ben lavorato mentre prima era brutto e di nessun valore […] li scacciarono senza alcun pretesto […]. Ed essi, allora, usciti occuparono altre terre, tra cui Lemno”.[14] L’insediamento dei Pelasgi a Lemno è confermato dal fatto che ritroviamo nell’isola la casta sacerdotale dei Selli di Dodona, con la differenza che ora sono chiamati Sinti o Sintii,[15] ritenuti i più antichi abitanti dell’Isola ma di origine “barbara”, in quanto parlavano con “l’accento selvatico”.[16] Ancora Omero fa insediare i Pelasgi, chiamandoli in entrambi i casi “guerrieri gloriosi”, a Larisa (collocata probabilmente nella fascia costiera dell’Anatolia settentrionale) e nell’isola di Creta.[17]
I guerrieri gloriosi insediati nella penisola anatolica partecipano anche alla guerra di Troia come alleati di Priamo.[18] Questo è quanto dicono le fonti a proposito dei Pelasgi e solo sulla base di queste informazioni formulo alcune ipotesi che non tengono conto degli assiomi precostituiti. Mi rendo conto, infatti, che addentrarsi sulla mole dei lavori scritti a proposito delle origini e delle vicende di queste misteriose genti significa affrontare un vero e proprio vespaio, spesso nebuloso, se non confusionario o contraddittorio. Cominciamo, allora, l’analisi delle informazioni raccolte ad iniziare dall’arrivo dei Pelasgi nella costa greca bagnata dal mare Egeo: l’approdo di genti “barbare” in questo mare ne indica indubbiamente la provenienza occidentale. In tal caso ricordo che nel mare collocato al tramonto del sole dei Greci, in quel periodo, l’unica civiltà capace di navigare per mare aperto era quella nuragica.
Segue l’importazione in Grecia dell’ “l’abitudine di venerare gli eroi”. Cos’era esattamente questa abitudine? Circa un secolo dopo Erodoto, il filosofo Aristotele, nel disquisire su un particolare fenomeno legato al trascorrere del tempo, prende come modello la Sardegna per narrare delle persone che “giacciono presso gli eroi” dimenticando, al risveglio, quanto avvenuto nel “frammezzo”.[19] La celebrazione del particolare culto in Sardegna è confermatala da molti commentatori delle opere del filosofo, tra i quali Filopono e Simplicio; il primo precisa che le persone in questione erano malati che dormivano per cinque giorni presso le tombe degli eroi perdendo la cognizione del tempo,[20] il secondo aggiunge che gli eroi “dormienti” erano i Tespiadi, ovvero i figli che Eracle aveva generato con le figlie di Tespie.[21] Insomma, i Greci sapevano che la celebrazione del culto era stato importato nel loro paese dai Pelasgi, eppure per spiegare il particolare fenomeno del sonno prendono come esempio la Sardegna, collegando così, implicitamente, l’isola dei nuraghi alle genti insediate a Dodona; la stessa citazione dei Tespiadi-Eraclidi, seppure mirata a dare lustro agli eroi greci, conferma l’antichità del culto. Gli officianti del culto agli eroi morti, i sacerdoti Selli, erano chiaramente privi di calzature. Come non collegare, allora, questi personaggi con quelli rappresentati dai bronzetti sardi, identificati finora come capi? (Figura 1)
Questa tipologia di statuette raffigura certamente personaggi di rango muniti di bastone e mantello (simboli del potere), ma rappresentano anche la funzione sacerdotale, mostrata appunto dall’assenza delle calzature e dal particolare indumento che indossano. Mi riferisco a quella sorta di fascia frangiata che fuoriesce anteriormente dalla corta tunica e che, passando forse sulle spalle, si distende sulla schiena. D’altra parte un indumento dello stesso tipo è citato da Omero, il quale lo definisce col termine “bende di Apollo”, facendolo indossare dal sacerdote Crise;[22] queste “bende”, a detta dei commentatori dell’opera omerica, erano semplicemente delle stole di lana che servivano da paramento sacro. Insomma, siamo di fronte ad una sorta di anticipazione dell’abbigliamento religioso moderno. Attenzione al fatto che i sacerdoti Selli di Dodona, diventati Sinti o Sintii quando si insediano nell’isola di Lemno, li ritroviamo come “Salii” nei dodici sacerdoti dell’antica città di Veio,[23] e quanto gli Etruschi siano stati influenzati in materia religiosa dalla cultura nuragica è fuori discussione. I Selli di Dodona esprimevano i responsi col fremito della quercia, pianta che in Sardegna, secondo la tradizione, ha sempre suscitato un certo fascino, non ultima l’usanza di suggellare sotto la sua ombra i patti più importanti, compresi quelli dell’amministrazione della giustizia.[24] Le profetesse epirote assumevano la veste di colombe o parlavano come colombe per interpretare gli auspici. Intanto in Sardegna la donna ha sempre assunto un ruolo piuttosto importante nella società, mentre nella funzione di guaritrice sfiora spesso l’ambito religioso; inoltre l’antichità della funzione taumaturgica appare dimostrata dal rinvenimento di bronzetti facilmente identificabili come sacerdotesse-guaritrici. (Figura 2)

Quanto alle colombe, la presenza del volatile nella cultura nuragica non costituisce certo un problema, la troviamo infatti riprodotta in gran numero e in miniatura in numerosi siti religiosi, mentre nelle navicelle in bronzo figura sistematicamente sulla sommità dell’albero e sulle fiancate; non è da escludere che il volatile fosse presente anche da vivo perché, come dicono le fonti antiche, era utilissimo nella navigazione. Ci dovrebbero essere pochi dubbi anche sul luogo scelto dai Nuragici per praticare il culto degli eroi: la Tomba di Giganti appare il sito più appropriato e verosimile, mentre le sacerdotesse svolgevano probabilmente i loro compiti nel vicino nuraghe e nella nicchia del lungo corridoio che conduce alla sala principale. Non a caso, infatti, molti nuraghi risultano costruiti disassando ad arte il diametro interno dell’ambiente della torre principale rispetto al diametro del paramento esterno: con questa formidabile variante costruttiva, che rischiava di indebolire tutta la struttura, i Nuragici, allungavano il corridoio aumentandone il fascino!

D’altra parte l’aspetto religioso è quella che giustifica meglio la costruzione di migliaia di mirabili e costosi edifici. Le stesse grandi nicchie ricavate all’interno dell’ambiente principale del nuraghe hanno le dimensioni ideali per ospitare i “troni” dei sacerdoti-capi. I Pelasgi importano in Grecia anche la moda di “rappresentare le statue di Ermes col membro virile eretto”, considerata da Erodoto uno dei tanti “misteri dei Cabiri”. Al di là del fatto che Omero dipinge Ermes come un dio che gradisce frequentare l’Occidente dei Greci, in uno dei tanti Inni minori lo stesso poeta narra le marachelle di Ermes fanciullo. Egli, appena nato e quindi ancora nudo, ruba una mandria di vacche, mentre da fanciullo inventa strumenti musicali, tra i quali uno zufolo che emette melodie così splendide da attirare l’attenzione del fratellastro Apollo. Quest’ultimo, deliziato dalla musica, propone di scambiare lo strumento musicale col suo bastone dorato. Con l’acquisizione dello scettro di Apollo il dio Ermes controlla il buon andamento della pastorizia, dei commerci, della lavorazione dei metalli e della navigazione di tutto il mondo e, come simbolo di questi poteri porta, oltre al bastone dorato, i sandali alati e un berretto rotondo.[25] (Figura 4)

Ora, al di là del fatto che i poteri di Ermes si prestano benissimo alle caratteristiche socio-economiche dei Nuragici, la tradizione di provenienza greca attribuisce ad Ermes un preciso legame con la Sardegna tramite la figura di Norace, il quale sarebbe nato dalla coppia formata dal dio e da Erizia, uno delle Ninfe Esperidi; come è noto Norace avrebbe guidato gli Iberi che giunsero nell’Isola per fondare Nora.[26] Ebbene, alcuni bronzetti nuragici riproducono uno strano personaggio che riassume quanto descritto dalle fonti greche su Ermes. (Figura 3) Infatti le statuette in questione rappresentano un fanciullo nudo (tettine prominenti) col membro eretto, mentre suona lo Zufolo (launeddas) con un copricapo rotondo. Per terminare con il culto ad Ermes ricordo che il carnevale di Bosa, ma pare che manifestazioni similari si svolgessero in varie zone della Sardegna, prevede la rappresentazione della versione di Giolzi bambino-bamboccio nudo munito di un enorme fallo. Restiamo sui misteri dei Cabiri, importati in Grecia dai Pelasgi di Dodona e trasferiti poi a Samotracia e Atene. Secondo lo stesso Erodoto esisteva in Egitto un tempio dedicato ad essi, le cui immagini, simili a quelle di un pigmeo, somigliavano a quelle di Efesto e dei Patéci fenici.[27] Al di là della presenza dei Pelasgi in Egitto (occhio agli Sherden), i Patèci presiedevano in particolare alla “estrazione e alla lavorazione delle risorse del sottosuolo”[28] e sono da sempre associati al dio Bes, rinvenuto in numerosissimi esemplari in Sardegna in contesti “egittizzanti” (figura 4). Il copricapo indossato da questi Bes, una sorta di “diadema piumato”, ne indica l’origine sarda o egiziana, in quanto nell’Isola è portato da una testina in bronzo rinvenuta presso Decimoputzu datata nel XII secolo a.C., mentre nel paese del Nilo è indossato da uno dei Popoli del Mare raffigurati in Egitto che, guarda caso, risulta schierato a fianco degli Sherden nella battaglia sul mare del 1174 a.C.: i Filistei.
Quanto ai Pelasgi che Omero propone come residenti di Larisa, una delle ipotesi più accreditate identifica questa località nella foce del fiume anatolico Gediz, presso Smirne, in quanto il poeta ne illustra le “fertili zolle”. In tal caso le “coincidenze” si moltiplicano perché si tratta di una regione particolarmente ricca di toponimi riconducili alla Sardegna, tra i quali ricordo quello di Sardi, una città dell’interno. Dai versi omerici che narrano della partecipazione dei Pelasgi alla guerra di Troia emerge un’ulteriore “coincidenza” davvero curiosa: uno di questi guerrieri, un certo Forci, si batte in duello con l’acheo Aiace Telamonio e viene colpito gravemente allo stomaco nonostante disponga di una protezione chiamata “piastra della corazza”.[29]
Al di là del fatto che l’uso del termine risulta unico in tutta la letteratura epica, e non solo omerica, ricordo che la corazzatura dei guerrieri nuragici, specie degli arcieri, era completata da una particolare piastra che proteggeva la parte anteriore del corpo e che anche questa risulta unica nell’iconografia mediterranea dell’Età del Bronzo. Infine, Tucidide e Sofocle affermano che Pelasgi erano della stessa etnia dei Tirreni-Tirseni,[30] ovvero i “costruttori di torri”. Nessuno può mettere in dubbio il fatto che i costruttori di torri per eccellenza dell’Età del Bronzo fossero i Nuragici.
D’altra parte gli stessi ateniesi si ingelosirono non poco quando videro il bellissimo muro costruito dai Pelasgi intorno alla loro città! L’analisi delle informazioni contenute nelle antiche fonti, unita ai dati provenienti dall’archeologia e dall’antropologia, consentono di invertire le rotte interessanti la Sardegna dell’Età del Bronzo: non esisteva quindi solo la direzione che conduceva all’isola, il semaforo rosso perenne che ne vietava l’uscita diventa finalmente verde anche per gli indigeni che intendevano lasciarla.
1 Apollonio Rodio, Le Argonautiche, IV, vv. 1211-1215.
2 Sito archeologico situato nei pressi dell’attuale città di Giannina.
3 Erodoto, Storie, II, 52.
4 Tucidide, La guerra del Peloponneso, I, 3.
5 Erodoto, Storie, II, 55-56.
6 Erodoto, Storie, II, 52.
7 Erodoto, Storie, II, 50.
8 Iliade, XVI, vv. 233-235.
9 Odissea, XIV, vv. 327-339.
10 Sofocle, Trachinie, vv. 1163-1167; vv. 168-171.
11 Erodoto, Storie, II, 57.
12 Erodoto, Storie, II, 55.
13 Erodoto, Storie, II, 51.
14 Erodoto, Storie, VI, 137.
15 Iliade, I, vv. 590-594; Odissea, VIII, vv. 292-294.
16 Odissea, VIII, v. 284.
17 Odissea, XIX, v. 177.
18 Iliade, II, vv. 840-843.
19 Aristotele, La Fisica, IV, 11, 218.
20 Filopono, Commenti in Aristotele, XVII.
21 Simplicio, Commenti in Aristotele, IX.
22 Iliade, I, vv. 12-15.
23 Servio Mario Onorato, Commentari in Vergilii Aenidos libros, VII, 1.
24 Emanuel Domenech in “Bergers et Bandits. Souvenirs d'un voyage en Sardaigne".
25 Omero, Inno a Ermes.
26 Pausania, Periegesi della Grecia, X, 17, 5.
27 Erodoto, Storie, III, 37.
28 Gabriella Scandone Matthiae, Egitto e Sardegna, contatti fra culture, 1988, pp. 30-31
29 Iliade, XVII, vv. 312-314.
30 Tucidide, La Guerra nel Peloponneso, IV, 109; Sofocle, Inaco, frammento 256.

Fonte: www.gianfrancopintore.blogspot.com

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